martedì 14 settembre 2021

Settimo centenario di Dante


La notte del 14 settembre del 1321, dopo aver contratto la malaria di ritorno da un’ambasciata a Venezia per conto di Guido Novello, moriva a 56 anni nell’esilio di Ravenna Dante Alighieri, il massimo poeta della letteratura italiana, padre della lingua italiana, da lui plasmata e indirizzata a partire dal toscano in quel capolavoro che è la Commedia, testo chiave anche per comprendere il pensiero medievale.

Direi che non c’è altro da aggiungere, solo da (ri)leggere qualche suo testo, di quelli che abbiamo studiato a fondo durante gli anni delle nostre scuole superiori: il sonetto dedicato a Guido Cavalcanti, altro esponente del Dolce Stil Novo, e il celeberrimo canto di Ulisse della Divina Commedia

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STATUA DI DANTE DAVANTI A SANTA CROCE, FIRENZE - FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

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GUIDO I’ VORREI CHE TU E LAPO ED IO

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

(da Le Rime)

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INFERNO, CANTO XXVI

     Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
     Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
     Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna;
     e se già fosse, non saria per tempo:
cosí foss’ei, da che pur esser dèe!
ché più mi graverà, com più m’attempo.
     Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avean fatte i borni a scender pria,
rimontò il duca mio e trasse mee;
     e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio
lo piè senza la man non si spedia.
     Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi;
e più lo 'ngegno affreno ch’i’ non soglio,
     perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso noi m’invidi.
     Quante il villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
     come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giú per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
     di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, si com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
     E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
     che nol potea sí con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
si come nuvoletta, in su salire;
     tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra il furto,
e ogni fiamma un peccatore invola.
     Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù senz’esser urto.
     E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso».
     «Maestro mio,» rispos’io «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
     chi è in quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratei fu miso?»
     Rispose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
     e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fe’ la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
     Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
     «S’ei posson dentro da quelle faville
parlar,» diss’io «maestro, assai ten priego
e riprego, che il priego vaglia mille,
     che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del disio ver lei mi piego!»
     Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
     Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perché fur greci, forse del tuo detto».
     Poi che la fiamma fu venuta quivi,
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
     «O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
     quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi».
     Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
     indi la cima qua e lá menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
     mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno lá presso a Gaeta,
prima che si Enea la nomasse,
     né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
     vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
     ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno, e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
     L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
5e l’altre che quel mare intorno bagna.
     Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta,
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
     acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
    ' O frati, ' dissi ' che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
     de’nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo senza gente.
     Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza ’.
     Li miei compagni fec’io si aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
     e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
     Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
     Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
     quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza; e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
     Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto:
     tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,
     infin che ’l mar fu sopra noi richiuso»

(dalla Divina commedia)

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Altri testi di Dante Alighieri sul Canto delle Sirene:

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LA FRASE DEL GIORNO
Apri la mente a quel ch'io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso.
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia




Durante di Alighiero degli Alighieri, noto con il solo nome Dante (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321), poeta italiano. Considerato il padre della lingua italiana, è universalmente noto per la Divina Commedia, espressione della cultura medievale. Spaziò all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana e la cultura occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta".


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