mercoledì 30 aprile 2008

Le fotografie

 

ALESSANDRO PARRONCHI

NOI DUE IN UNA VECCHIA FOTO RITROVATA


Un passo più leggero una mente più audace
slittare sulla terra con te che ti volgevi
verso me come a un'uva...
Io procedevo incerto, e il mare era lontano
l'ombra delle colline volava via piano
la tazza del piacere s'accostava alle labbra
ma per allontanarsi, il tuo piede
che premeva le nubi, la mano
che premeva il mio fianco...
E il duomo accanto com'era bianco!
E l'incenso esalava dalle porte
dolce come la morte!
Io passare con te per quelle porte!
L'aria era traversata da colombi in amore...

Guardando noi rimasti all'altra riva,
lontani, da una riva non più verde
risuscita la gioia rediviva
di una vita passata di cui nulla si perde.

(da Nuovo cammino, 1996)


Le fotografie sono istanti rubati allo scorrere del tempo, piccoli secondi strappati all’oblio dei giorni, incorniciati, chiusi nei cassetti, avvolti in fogli d’album come farfalle spillate, affidati ai bytes invisibili di un disco fisso o di un CD.
Raccontano infinitesime parti di noi, dei luoghi dove siamo stati, delle persone che abbiamo incontrato; rimangono come pietre miliari sulle strade delle nostre vite, minuscoli puntini tracciati su una linea retta.

Ritrovo in una poesia di Alessandro Parronchi un'altra similitudine sulle fotografie: il tempo è un fiume, dice il poeta fiorentino e i punti sono le due rive, sempre più lontane con il passare degli anni.


Fotografia © Family Handyman



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LA FRASE DEL GIORNO
La strada è una lode allo spazio. Ogni tratto di strada ha senso in se stesso e ci invita alla sosta.
MILAN KUNDERA, L’immortalità




Alessandro Parronchi (Firenze, 26 dicembre 1914 – 6 gennaio 2007), poeta, storico dell'arte e traduttore italiano. Con il suo stile ricercato è passato da un ermetismo  incantato a un intimismo che trae giovamento dalla consolazione della memoria: per questo le sue poesie sono oggetto di un meditato lavorio con cui il ricordo media l’emozione.



martedì 29 aprile 2008

Antonia Pozzi


Troppo breve è stata la vita della poetessa milanese Antonia Pozzi, che nel 1938, a soli ventisei anni, pose fine ai suoi giorni avvelenandosi con i barbiturici.
Le sue poesie, pubblicate postume nel 1941 nel volume “Parole” rivelano una lotta con la disperazione di non riuscire ad aggrapparsi alla realtà. Troppo dolore, una malinconia quasi patologica, le ha arrecato la relazione con il suo professore di latino e greco al liceo classico Manzoni di Milano, Antonio Maria Cervi, osteggiata dal padre, tanto da spingerla a tentare una prima volta il suicidio nel 1932. Altro dolore le darà lo stesso Cervi rompendo definitivamente con lei l’anno seguente.

Antonia si rifugia in un mondo fatato, nell’incanto della natura dei laghi e delle montagne - passò molto tempo nella villa di famiglia a Pasturo, nel Lecchese, alle pendici della Grigna - cerca nell’acqua, nelle luci, nei cieli azzurri, nelle ombre dei boschi quel conforto che la vita non sa darle. Con inflessioni molto personali va alla rabbiosa ricerca della verità delle cose, cerca di sanare quella lacerazione che le brucia dentro, quell’ansia che le scava nel cuore.

La Pozzi conosce bene l’abisso: è appassionata di montagna, ama compiere lunghe escursioni. Eppure, non trova il modo per restare al di qua del bordo: guarda giù e sa che un giorno si lascerà andare. Neanche la fede la sorreggerà più, la vita le apparirà davvero senza via di scampo: compaiono nei suoi versi le fabbriche della periferia milanese, la desolazione di quei paesaggi industriali.

Finirà per seguire quel destino interiore, precipiterà nell’abisso, come Michelstaedter, come Pavese, come Sylvia Plath, come Marina Cvetaeva. Lasciandoci quelle poche poesie, che riecheggiano nei versi chiari la purezza di quelle acque di montagna, la dolcezza di quelle acque di lago.


VERGINITÀ

Vele solari
col tuo piede scarno
tentavi dal pontile,
raccoglievi
chiare sillabe d'acqua
nella scia delle barche.
Poi un profilo d'alte pietre
franava in lago:
ridendo
offrivi alghe al mio nudo
corpo serale.


***

PUDORE

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.


***

ESEMPI

Anima, sii come il pino:
che tutto l'inverno distende
nella bianca aria vuota
le sue braccia fiorenti
e non cede, non cede,
nemmeno se il vento,
recandogli da tutti i boschi
il suono di tutte le foglie cadute,
gli sussurra parole d'abbandono;
nemmeno se la neve,
gravandolo con tutto il peso
del suo freddo candore,
immolla le fronde e le trae
violentemente
verso il nero suolo.


Anima, sii come il pino:
e poi arriverà la primavera
e tu la sentirai venire da lontano,
col gemito di tutti i rami nudi
che soffriranno, per rinverdire.
Ma nei tuoi rami vivi
la divina primavera avrà la voce
di tutti i più canori uccelli
ed ai tuoi piedi fiorirà di primule
e di giacinti azzurri
la zolla a cui t'aggrappi
nei giorni della pace
come nei giorni del pianto.

Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole.
La fascia l'ombra
sempre più da presso
e pare, intorno alla nivea fronte,
una capigliatura greve
che la rovesci,
che la trattenga
dal balzare aerea
verso il suo amore.
Ma l'amore del sole
appassionatamente la cinge
d'uno splendore supremo,
appassionatamente bacia
con i suoi raggi le nubi
che salgono da lei.
Salgono libere, lente
svincolate dall'ombra,
sovrane
al di là d'ogni tenebra,
come pensieri dell'anima eterna
verso l'eterna luce.

Vedi anche: http://cantosirene.blogspot.com/2008/06/il-dolore-di-antonia.html


La Grigna, vista da Moggio



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LA FRASE DEL GIORNO
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ, Vivere per raccontarla




Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938), poetessa italiana. Laureatasi in Filologia con una tesi su Flaubert, si tolse la vita dopo una contrastata storia d’amore. Il suo diario poetico Parole fu pubblicato postumo, nel 1939: composto a partire dai diciassette anni, riflette un'amara e inquieta sensibilità in cui si avverte l'influsso della lirica di Rilke.


lunedì 28 aprile 2008

L'oppio dell'ora


MARIO NOVARO
OPPIO

Liquido respiro alterno aperto
di liscio mare ferrigno
con pigra una barca là nell'infinito
donde immensa volta di cielo s'inarca
e vi si appuntano
i cipressi che salgono dal mare
neri, tagliando l'orizzonte
spalancano lo spazio
perché l'anima immota lo varchi
oziando nell'oppio dell'ora. 

(da Murmuri ed echi, 1912)


Sono giorni di primavera adesso, le piogge hanno lasciato il campo a un sole caldo, più caldo perché inatteso. Il pomeriggio di aprile fa stanchi, appesantisce tiepido le palpebre. Cullano il dormiveglia i cinguettii dei passeri, dei tordi, dei fringuelli, il tubare delle tortore, il ritmo frenetico del picchio. E il sonno cala lieve come i petali dei fiori di melo sulla terra.
È questo senso di ozio che il poeta ligure Mario Novaro paragona all'oppio nei versi del 1912, raccolti nel volume "Murmuri ed echi". Nella tranquillità di una vista sul mare, quello di Oneglia, nell'inerzia dell'ora calda, la scoperta dei segreti delle cose erompe quasi da sé, come una rivelazione, da quel mare balenante di riflessi.




Fotografia © Daniele Riva



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LA FRASE DEL GIORNO
Se la poesia non ci libera dalla logica, a null'altro ci può servire.
MIGUEL DE UNAMUNO, Soliloqui e conversazioni




Mario Novaro (Diano Marina, 25 settembre 1868 – Ponti di Nava, 9 agosto 1944), poeta e filosofo italiano. Nella sua poesia - la sola opera Murmuri ed echi del 1912 - un'ansia metafisica si accompagna, pascolianamente, a un impressionismo lirico.



domenica 27 aprile 2008

Comprare le rose


ATTILIO BERTOLUCCI

PEZZO SEMPLICE


Non vende che rose
bruna rosa infiammata
ragazza di calza smagliata
che m'ha guardato negli occhi
sino a farli abbassare.

Diciassette anni e una sedia
di vimini semisfondata
ora di colpo s'è alzata
per spegnere le sue rose
con secchi d'acqua azzurrina.

Per chi le compro per te
per lei che s'è illuminata
all'improvvisa fiammata
dell'accendino insieme
fumando e scegliendo le rose?

(da Verso le sorgenti del Cinghio, Garzanti, 1993)

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Anche un gesto di per sé semplice - stavo per dire banale, ma regalare fiori non è mai banale - come comprare le rose può far nascere in un grande poeta la poesia. Questi splendidi versi sono di Attilio Bertolucci, padre dei famosi registi Bernardo e Giuseppe. Il pregio che salta agli occhi immediatamente è l'uso delle immagini: siamo in una sera breve d'inverno, forse a Milano o a Roma, magari a Parma, città natale del poeta; la giovane fioraia vestita in modo trasandato, "da lavoro", siede su una vecchia sedia malmessa. Insomma non ci sarebbe poi molta poesia, anzi l'atmosfera è sciatta e modesta. Poi, d'improvviso, i gesti che cambiano la situazione: la ragazza si alza e versa acqua sulle rose con un secchio di plastica. Si accende una sigaretta e la fiamma per un breve istante le illumina il viso nel buio della sera. Sembra quasi di scorgere un sorriso mentre sceglie le rose per il poeta, lieta di essere riuscita a venderle. Quelle rose sono per la donna amata, ma anche per la ragazza, per aver regalato a Bertolucci un momento di poesia.



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Gilles Gorriti, "La Fleuriste"



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LA FRASE DEL GIORNO
Non fidatevi delle apparenze. Servono soltanto a smarrirsi.
MAXENCE FERMINE, Neve




Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000), poeta italiano. Le sue opere poetiche sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale.




sabato 26 aprile 2008

La Gioconda “nuda”


Dopo la dissacrazione dei baffi dipinti da Duchamp, dopo le rivisitazioni di Warhol e di Botero, dopo il furto ad opera di Vincenzo Perugia nel 1911, dopo l’assurda e vaneggiante rivisitazione del “Codice da Vinci”, ecco che per la “Gioconda” arriva la violenza scientifica.

Per risolvere l’arcano dello “sfumato” leonardesco che dona a quel sorriso la sua caratteristica enigmaticità, la società “Lumiére Technologie” ha sottoposto il dipinto alla camera multispettrale: un raggio luminoso proiettato dalla macchina consente di misurare lo spettro dei vari componenti e di risalire ai primi disegni nascosti sotto la superficie colorata, senza neppure sfiorare l’opera.
L’indagine, eseguita accuratamente dal Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese, guidata dalla ricercatrice Mady Elias, è pubblicata dalla rivista specializzata americana “Applied Optics”.

Risulta dunque che lo “sfumato” è una geniale elaborazione della tecnica messa a punto dai pittori fiamminghi ai tempi di Van Eyck ed esportata in Italia forse da Antonello da Messina. Il procedimento è semplice: sovrapporre tanti strati di un solo colore non troppo concentrato, nel caso della “Gioconda” una “terra d’ombra”, ocra contenente manganese. I passaggi di colore successivi danno l’impressione che il ritratto esca letteralmente dalla tavola.
La ricerca ha rivelato anche la composizione della mano preparatoria: 99 parti di bianco di piombo e una di vermiglio, secondo l’uso che all’epoca era diffuso in Italia.
Leonardo, ci dice questo studio francese, era molto attento alle nuove scoperte tecniche, cosa che non stupisce. Ed era attento anche alle correnti pittoriche straniere, come altri artisti del suo tempo: dallo scambio culturale non si poteva trarre che vantaggi, allora come oggi.

Quanto al sorriso della “Gioconda”, quello resta enigmatico: l‘affiorare dell‘anima sul volto. La scienza vorrebbe spiegare tutto, ma il trascendente vi si sottrae. Il mistero rimarrà, per fortuna, insondabile.


Leonardo da Vinci, "La Gioconda", Parigi, Louvre


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LA FRASE DEL GIORNO
Uno degli inconvenienti più grandi con l’amore è che, per un momento almeno, corriamo il rischio di essere felici.
ALAIN DE BOTTON, Esercizi d’amore

venerdì 25 aprile 2008

La nostalgia di Ungaretti


GIUSEPPE UNGARETTI

NOSTALGIA


Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa


Su Parigi s'addensa
un oscuro colore
di pianto


In un canto
di ponte
contemplo
l'illimitato silenzio
di una ragazza
tenue

Le nostre
malattie
si fondono

E come portati via
si rimane.


(da Allegria di naufragi, Vallecchi, 1919)


È il 28 settembre del 1916 quando Giuseppe Ungaretti scrive questa malinconica poesia. Si trova a Locvizza, sul Carso, impegnato nelle battaglie di trincea della Prima Guerra Mondiale. E per sfuggire all'orrore, ricorda.
I versi lo portano lontano dal campo di battaglia, dagli attendamenti, dalle gallerie scavate nella roccia. Con la memoria torna a Parigi, dove era arrivato dalla natia Alessandria d'Egitto alla fine del 1912 per seguire dei corsi al College de France e alla Sorbona e dove aveva conosciuto artisti d'avanguardia: Apollinaire, Picasso, Braque, Modigliani, De Chirico, Léger.
Ungaretti aveva 24 anni. In quella cerchia d'artisti c'era una ragazzina sedicenne, Marthe Roux, che si dilettava di pittura e frequentava con la sorella Louise la congrega della Closerie de Lilas, lo stesso caffè dove anni dopo sarà solito scrivere Hemingway.

È una notte di fine febbraio, a Montparnasse. L'alba non è molto lontana, il cielo è cupo, nebbioso. Sotto il ponte la Senna scorre grigia, porta via i lumi riflessi nelle sue acque. Il giovane Ungaretti osserva quella ragazza taciturna, sa che Apollinaire vi ha posto gli occhi addosso e gliela contende. Marthe è "un fiore d'alpe" tenue e opaco, come denota il poeta in versi poi cancellati dalla stesura finale: sente il malessere della ragazza simile al proprio in quella notte da bohémien, ma non fa nulla, rimane lì sul ponte mentre la Senna scorre e si porta via i suoi pensieri, così simili a quell’”oscuro colore di pianto“.

"Cara Marthe" le scriverà dal fronte nel 1918, "se non sono un libertino, non sono ancora arrivato all'armonia degli angeli; la nostra relazione è stata assolutamente pura, ma io volevo avervi totalmente..."
Quarant'anni dopo ricorderà ancora la ragazza di "Nostalgia": "Ho ancora le vostre foto. Che illusione meravigliosa è stata per me".

Parigi, Ponte sulla Senna - Fotografia © Pxhere


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LA FRASE DEL GIORNO
Pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto e immutabile? Ah no, il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi.
MILAN KUNDERA, La vita è altrove




Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.


giovedì 24 aprile 2008

Cos'è la poesia? (II)


GUSTAVO ADOLFO BÉCQUER

"CHE COS'È LA POESIA?


"Che cos'è la poesia? dici, fissando
nei miei occhi i tuoi occhi azzurri.
Che cos'è la poesia! E me lo domandi?
La poesia... sei tu!"

Ecco altre risposte alla domanda posta l'altro giorno. Cos'è la poesia? Allora ci aveva soccorso Maxence Fermine, con un testo ambientato in Giappone. Restiamo dalle parti della saggezza orientale ed ascoltiamo questa storiella zen di Tazim Asnam.

"Maestro a cosa serve la poesia? Perché - rispose il maestro - a cosa serve la luna, o l'azzurro del cielo?"

Qui il punto di vista è leggermente spostato: non si valuta cosa sia la poesia, probabilmente si dà come un fatto scontato. Si pensa alla sua utilità: in effetti anche ai nostri giorni la poesia sembra essere un bene inutile, lontano dagli schemi di profitto e visibilità sociale che permeano la nostra società, dove sei quello che produci o quello che mostri di essere. Eppure, la risposta del maestro all'allievo è quanto di più spiazzante: la poesia non deve servire, la poesia è. Non deve essere utile, le basta esistere con la sua bellezza e la sua emozione. Chi non è mai rimasto ad osservare il cielo azzurro o la luna senza provare un'emozione? Chi non ha mai detto "Guarda che bel cielo, oggi" o "Guarda che luna, stasera"?

Il poeta spagnolo Gustavo Adolfo Bécquer nella ventunesima delle sue Rime coniuga questi due concetti: si trova davanti alla donna di cui è follemente innamorato, possiamo immaginarli seduti su un comodo divano ottocentesco; lei ha una rosa rossa appuntata sul petto - "mai avevo intravisto nel vulcano un fiore" dirà poi Bécquer. I due conversano probabilmente delle loro passioni, Gustavo Adolfo le dice "Scrivo poesie", la ragazza gli pone la nostra stessa domanda: "Che cos'è la poesia?". Il poeta allora ha un'improvvisa intuizione: vede la bellezza e prova l'emozione, in questo caso l'amore. Ed ecco che la poesia diventa donna, diventa la Musa: bellezza ed emozione.




LAURA MARTINELLI, "CALLA LILY POETRY"


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LA FRASE DEL GIORNO
Nonostante gli sforzi che noi operiamo per riportare alla mente un oggetto da lungo tempo obliato, perveniamo sovente al limite del ricordo senza tuttavia riuscire a ricordare.
EDGAR ALLAN POE, Racconti, Ligeia




Gustavo Adolfo Claudio Domínguez Bastida, più noto come Gustavo Adolfo Bécquer (Siviglia, 17 febbraio 1836 – Madrid, 22 dicembre 1870), poeta, scrittore e giornalista spagnolo. Il suo ideale poetico è lo sviluppo di una lirica intimista, espressa con sincerità, semplicità, musicalità di forma e facilità di stile, ispirata da Hiene, Byron e De Musset e che a sua volta ispirerà i modernisti spagnoli.

mercoledì 23 aprile 2008

Giornata Mondiale del Libro


Oggi, 23 aprile è la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d'Autore, organizzata dall'UNESCO. La data è stata scelta perchè proprio in quel giorno del 1616 si spensero tre grandi scrittori: William Shakespeare, Miguel de Cervantes e Garcilaso de la Vega.

Nel messaggio del Direttore generale dell'UNESCO Koïchiro Matsuura si legge:

"La proclamazione del 2008 Anno Internazionale delle Lingue da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ci invita, inoltre, a riconsiderare un’altra dimensione del libro, complementare a quelle di cui s’è fatta menzione in precedenza: la dimensione linguistica dell’attività editoriale.
Il libro è, in effetti, un supporto all’espressione che vive per mezzo della lingua e nella lingua. Ogni libro è scritto, prodotto, scambiato, usato e apprezzato entro un determinato quadro linguistico.
Scegliendone la lingua l’autore seleziona anche i suoi lettori, che dovranno essere in grado di comprenderlo. La traduzione permette di stabilire ponti linguistici che procureranno tanto nuovi libri che nuovi lettori.
Quando una lingua non ha accesso al mondo dell’editoria viene esclusa, insieme a coloro che la parlano, da una gran parte della vita intellettuale e dell’attività economica della società. Da ciò discende l’importanza dello sviluppo del multilinguismo attraverso la traduzione".


Fotografia © Dr. Markus Gossler


"Anche libri di scarso valore sono pur sempre libri e perciò per me cosa sacra" scrive Gunter Grass nel suo capolavoro, "Il tamburo di latta". Ecco perché aborro i roghi di libri, che siano quelli nazisti di Berlino negli Anni Trenta o quelli immaginati da Ray Bradbury in "Fahrenheit 451", o quelli dei fondamentalisti religiosi. Leggiamo, allora, e lasciamo leggere, perché, come disse Plinio il Vecchio, "Non vi è libro tanto brutto che non possa essere in qualche parte utile".



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LA FRASE DEL GIORNO
Quelli che amano abbracciano qualcosa che è in loro piuttosto che abbracciarsi tra loro.
GIBRAN KAHLIL GIBRAN, Sabbia e spuma

martedì 22 aprile 2008

Cos'è la poesia?



"Cos'è la poesia?" domandò il monaco.
"È un mistero ineffabile", rispose Yuko.
Un mattino, il rumore della brocca dell'acqua che si spacca fa germogliare nella testa una goccia di poesia, risveglia l'animo e gli conferisce la sua bellezza. È il momento di dire l'indicibile. È il momento di viaggiare senza muoversi. È il momento di diventare poeti.
Non abbellire niente. Non parlare. Guardare e scrivere. Con poche parole. Diciassette sillabe. Un haiku.
Un mattino, ci si sveglia. È il momento di ritirarsi dal mondo, per meglio sbalordirsene.
Un mattino, si prende il tempo per guardarsi vivere.


Questo breve apologo è un capitolo di "Neve", agile romanzo dello scrittore francese Maxence Fermine, una favola che descrive in toni magici e leggeri che cosa è la poesia, che cosa sono - o possono essere - la vita e l'amore.
Sembra legarsi alle riflessioni di questi ultimi giorni, alla poesia-messaggio di cui parlava Enzo Bianchi su "Avvenire". Anche qui c'è quel discorso profetico: "dire l'indicibile", perché questo è in fondo la poesia, raccontare la realtà che si rivela, sia essa una sensazione, un'emozione, una fugace impressione colta al volo come il barbagliare di un riflesso sull'acqua. Poesia è stupore: quello che prova il poeta quando il messaggio gli si rivela, quello che prova il lettore quando si immedesima nel messaggio, che può anche essere per lui un segno diverso generato dalla stessa poesia, ovvero una somma di emozioni, di sensazioni, di impressioni e di esperienze che si porta dentro e che erompono dai versi scritti da un altro.
"Il testo poetico è inspiegabile, non inintellegibile" scriveva Octavio Paz in "Corrente alterna". E motivava meglio: "Per sentire un testo poetico occorre capirlo; per capirlo, ascoltarlo vederlo contemplarlo; convertirlo in eco ombra nulla. La comprensione è un esercizio spirituale". Perciò, "Ogni lettore è un altro poeta; ogni testo poetico, un altro testo".
Ovvero: da una parte del foglio o del monitor c'è un poeta che scrive, dall'altra parte c'è un poeta che legge.

Illustrazione di Georges Lemoine per "Neve"


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LA FRASE DEL GIORNO
Questa è la mia compassione per tutto il passato: vedere che è stato sacrificato, - sacrificato al favore, allo spirito, alla follia di ogni generazione che viene e interpreta ciò che fu come il proprio ponte!
FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, III, 11




Maxence Fermine
(Albertville, 17 marzo 1968) è uno scrittore francese. Dopo aver trascorso parte della sua infanzia a Grenoble, si trasferisce a Parigi, vivendovi per 13 anni. Dopo il successo di Neve (tradotto in 17 lingue), si è dedicato completamente alla scrittura di romanzi. Attualmente vive in Savoia con la sua famiglia.


lunedì 21 aprile 2008

Semi di tarassaco


La pioggia di aprile arruffa i soffioni, ne fa bianchi pulcini bagnati. Quando eravamo bambini, il nostro fiato li faceva volare nel vento quei semi di tarassaco, e restavamo ad osservare rapiti la loro nuvola disperdersi nel sole; magari immaginavamo che fossero paracadutisti in missione, come quelli che avevamo visto nei film, lanciati sulla Normandia a salvare l'Europa, o ballerine in tutù che volteggiavano leggere.

Poi i semi cadevano da qualche parte, svanivano alla nostra vista, sarebbero un giorno diventati una piantina, un bocciolo verde, un largo fiore giallo, un altro soffione... Ma già a noi non interessava più: sdraiati sul prato fiorito, tra le margherite e le viole, succhiavamo la cannuccia dello stelo, ne gustavamo quel sapore amaro cercando di riconoscere animali e oggetti nelle nubi che cambiavano forma nel cielo azzurro.

L'infanzia è un territorio magico, ha ancora la dimensione del sogno, del gioco che costruisce e non è imposto dagli schemi meccanici dei videogiochi. Non vive quell'ansia di crescere, quel male di vivere che circonda come un alone anche le adolescenze più felici. Nell'infanzia si vive forse il periodo più spensierato, quando non si è "causa sui" ma si è soggetti alle cure parentali, quando ancora si è tutti simili e quindi perfettamente accordati: "E dire che, quando saremo grandi, forse saremo stupidi come loro!" dice degli adulti uno dei protagonisti della "Guerra dei bottoni" di Louis Pergaud.
Purtroppo le cronache ci dicono che la soglia dell' età "innocente" si abbassa sempre più, che l'isola felice dell'infanzia rischia di sparire perché i bambini di oggi imitano gli adulti e non sono più capaci di emozionarsi davanti a quei semi di tarassaco che volano nel vento di aprile.



Fotografia © Alex Valavanis


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LA FRASE DEL GIORNO
L'esperienza non ha valore etico, è semplicemente un'etichetta con la quale designiamo i nostri errori.
OSCAR WILDE, Il ritratto di Dorian Gray

domenica 20 aprile 2008

La poesia oggi

Su “Avvenire” di domenica 13 aprile ho trovato un articolo molto interessante di Enzo Bianchi, insigne biblista e priore di Bose. Credo valga la pena riportarlo per intero, perché valuta la presenza della poesia nel mondo contemporaneo, la sua utilità in questi travagliati tempi dove i valori scompaiono progressivamente in una chiusura in se stessi, in un egoistico aggregarsi di solitudini che rimangono tali anche nella folla di uno stadio o di un concerto, dove conta l’affermazione più che l’essere. Siamo oramai dimentichi della vera funzione della poesia, della sua origine: la poesia si fa per gli altri più che per se stessi, questo è il fine ultimo dei poeti, che Bianchi paragona ai profeti, sottomessi al messaggio da rendere noto al mondo. Perché nel messaggio sta la grandezza, non nel poeta. “È il poema a dire noi” diceva il messicano Octavio Paz, che sembra avallare anche la vena profetica intravista dal priore di Bose: “Con grafie chiare il poeta esprime le sue oscure verità”.

Poesia / Fra mito e merce quale futuro?
PAROLE CONTRO GLI IDOLI
di Enzo Bianchi

«Morta è una parola / appena detta, / han detto. Io dico / quel giorno comincia la sua vita». Vi è forse un’eco del racconto biblico della creazione e dell’efficacia della parola pronunciata da Dio in questa poesia di Emily Dickinson, ma vi è anche una verità sulle parole, vane o sapienti, che ciascuno di noi pronuncia, e soprattutto vi è una lode alla poesia, alle parole capaci di creare eventi, di trasmettere vita, di creare speranze e identità nuove. Ma la poesia, questa arte che 'crea', che 'fa', produce senso ha ancora un posto nel nostro mondo in cui consideriamo ogni prodotto come merce, ogni scambio come profitto, ogni comunicazione come commercio?
Oppure è parola 'morta' appena pronunciata, soffio vano che non lascia traccia di sé?
Credo che la poesia abbia una vitalità propria, che si nutre della fatica dei poeti, ma che in un certo senso la trascende: solo così ha potuto attraversare i millenni, abitare le svariate lingue, adornare le diverse culture, affascinare uomini e donne di ogni tempo e di ogni luogo. La poesia autentica, quella in cui il poeta è veicolo di un’ispirazione 'altra' da lui, pone infatti il lettore di ogni tempo a contatto non solo con lo 'sta scritto' di un testo o con l’esperienza spirituale di un autore, bensì con un mondo spirituale che ha costantemente e ovunque qualcosa da dire.
Il poeta è testimone di conoscenze profonde, che paiono arcane al mero esercizio della ragione: egli rivela e trasmette una sapienza avvolta nel silenzio.
Non per nulla vi è chi coglie una similitudine tra l’esperienza dell’ispirazione profetica e quella del poeta. Il profeta, come il poeta, si ritrova tra le mani e sulle labbra un messaggio sconvolgente con il quale deve convivere e che non può tacere a chi gli è compagno in umanità. E al poeta, come al profeta, è richiesto un atto di obbedienza e di sottomissione affinché la sua parola divenga energia creatrice, linguaggio promotore di storia.
Il poeta sa anche di dover restare costantemente piccolo perché la sorpresa di fronte alle alterità che abitano in lui o nel suo mondo lo coglie, lo ferisce, lo umilia: un universo lo interroga e un’attesa lo abita, quell’attesa di senso che è anelito di ogni essere umano. E in questa piccolezza, in questa fragilità vi è anche la ricchezza della gratuità, della parola che non serve e che, proprio per questo, non è serva di nessun padrone e perciò dona libertà a chi la pronuncia e la scrive, come a chi la ascolta o la legge. Sì, il nostro mondo ha ancora e sempre bisogno di poesia, perché ha bisogno di uomini e donne che sappiano custodire in se stessi il dialogo con ogni alterità, senza sopraffare gli altri né con il proprio io sordo a ogni voce estranea, né con l’idolo di certezze immutabili da contrapporre a chi non sa, o non vuole, smettere di aspettare il futuro. Abbiamo ancora bisogno che qualcuno scriva, pronunci, faccia risuonare parole che iniziano alla vita e aprono cammini ogni volta inediti: solo così ciascuno saprà andare oltre, verso un’identità più ricca perché, come ha scritto su queste pagine il poeta Adonis, «l’uomo è sempre un superamento di se stesso: viene dall’avvenire più che dal passato».



Gustave Moreau, "Poète voyageur"


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LA FRASE DEL GIORNO
L'universo: un acrostico dove cerco di leggere Dio.
GESUALDO BUFALINO, Il malpensante




Enzo Bianchi (Castel Boglione, 3 marzo 1943), monaco cristiano e saggista italiano, fondatore della Comunità monastica di Bose, a Magnano, della quale è priore. Molto feconda è la sua attività come pubblicista di tematiche religiose e di attualità contemporanea, sui giornali La Stampa, la Repubblica, L'Osservatore Romano, Avvenire, Famiglia Cristiana e, in Francia, La Croix, Panorama e La Vie.


sabato 19 aprile 2008

Dora Markus


EUGENIO MONTALE

DORA MARKUS


1

Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un'antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d'Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare.
E i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in quel lago
d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio; e così esisti!

2

Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
sull'umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta nell'ora
che abbuia, sempre più tardi.

È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino.
Ma è tardi, sempre più tardi.

(da Le occasioni, 1939)




Berthe Morisot, "Ragazza che si incipria il viso"


"Dora Markus" è una delle poesie più celebri di Eugenio Montale. Il suo fascino sta nella distanza di tempo in cui le sue due parti sono state composte: la prima, che il poeta stesso in una nota all'edizione Einaudi delle "Occasioni" del 1939 dichiara "rimasta allo stato di frammento", risale al 1926 e ci mostra Dora, una austriaca presentatagli da Bobi Bazlen, da una prospettiva esistenziale. Montale ne traccia il ritratto di donna inquieta, esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita, il cui cuore è "un lago di indifferenza", e che sembra affidare la propria salvezza all'immagine incantatoria di un portafortuna, quel topolino d'avorio celato nella trousse dei trucchi. Dora è insomma la classica donna montaliana, distante dal mondo fino a incarnare la valenza di nume, il ruolo che rivestirà l'amata Mosca nelle poesie del dopoguerra.
La storia aleggia sullo sfondo, come un'ombra, in questo periodo di relativa calma tra le due guerre mondiali, non è che un presagio, un presentimento insito nei turbamenti del vivere, nei silenzi di Dora, affacciata alla spalletta di quel ponte di Ravenna; è in quella "primavera inerte, senza memoria" grigia e soffocata nella periferia di ciminiere e di fumo.

Passano tredici anni, sull'Europa soffia ormai il vento di un'altra primavera, quella hitleriana. Montale dà "una conclusione, se non un centro" alla poesia. La prospettiva ora è mutata: Dora Markus è soltanto un ricordo, appare in questi inspiegabili disguidi della memoria, è la storia a prendere il sopravvento sulle esistenze; l'inquietudine è per quella bufera che si agita nell'aria del 1939: presto la Germania nazista invaderà la Polonia e un'apocalisse si abbatterà sul mondo intero. "La sera che si protende" sembra indicare proprio l'imminenza della guerra e "il palpito dei motori" è quello degli aerei, dei carri armati pronti a fare fuoco.
Dora deve fare i conti con il suo passato, con le scelte sbagliate che non si possono ormai più cancellare, con gli smacchi del vivere. E deve fare i conti con il presente, che ha portato dalle glorie asburgiche degli antenati al nazismo, a quella "fede feroce". Se nella prima parte la storia era un'ombra grigia sullo sfondo, qui è un immanente colorato di bandiere rosse con la svastica - l'anno prima l'Anschluss aveva unito l'Austria alla Germania: Dora si trova ancora una volta in una sorta di esilio. E già suonano le sirene, crepitano i fucili, si prepara l'orrore dei lager: "Ma è tardi, sempre più tardi".





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LA FRASE DEL GIORNO
La ragione sarà sempre un qualcosa in mancanza di meglio; essa seguirà sempre la conoscenza, che dunque non sarà mai ad essa affidata... (ma io le devo questa osservazione. Orsù, definiamola una polizia dello spirito: spregiata e indispensabile).
TOMMASO LANDOLFI, Des mois




Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), poeta e scrittore italiano. Premio Nobel per la Letteratura 1975 “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”, ovvero la “teologia negativa” in cui il "male di vivere"  si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio.



venerdì 18 aprile 2008

Aimé Césaire, la negritudine


"Ragione, io ti sacrifico alla brezza della sera".
AIMÉ CÉSAIRE
Il poeta martinicano Aimé Césaire è morto ieri all'ospedale di Fort-de-France, dove era ricoverato per problemi cardiaci. Era nato nell'isola caraibica, a Basse-Pointe, nel 1913 ed è stato sindaco di Fort-de-France e deputato del dipartimento francese d'oltremare per oltre cinquant'anni.

Nel 1939 pubblica "Diario del ritorno al paese natale", la sua raccolta più nota, dove appare per la prima volta il termine "negritudine", che passa a definire la coscienza di essere neri, comune poi ad altri poeti impegnati come il senegalese Léopold Sédar Senghor e il guyanese Léon Gontran Damas, suoi compagni di studi all'École Normale Supérieure di Parigi.
È un concetto che va al di là del puro dato biologico e si riferisce piuttosto a una delle forme della condizione umana, assommando tutti i valori spirituali, artistici e filosofici dell'essere neri e che porta Césaire a lottare per l'autonomia della Martinica e non per la sua indipendenza e a combattere contro il colonialismo ed il razzismo. Celebre è il suo "Discorso sul colonialismo", accolto nel 1955 come un manifesto di rivolta. Vi si legge infatti: "La colonizzazione disumanizza l'uomo, persino il più civilizzato; l'azione coloniale, l'impresa coloniale, la conquista coloniale, fondata sul disprezzo dell'uomo indigeno e giustificata da questo disprezzo, tende inevitabilmente a modificare colui che la intraprende; il colonizzatore che, per mettersi in pace la coscienza, si abitua a vedere nell'altro la bestia, si riduce a trattarlo come un'animale, tende oggettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia".

Quanto al poeta, Césaire rappresenta uno dei più alti esempi del Surrealismo francese, sin dall'opera citata, una tragedia in versi che esprime la sorte degli schiavi lasciando intravedere la speranza della liberazione. Il recupero delle tradizioni delle Antille è un tema caro anche al Césaire drammaturgo, che reinterpreta nel 1969 Shakespeare, con "Una tempesta", e si ispira nel 1967 al dramma di Lumumba, ucciso dai secessionisti del Katanga dopo il golpe del 1961, mettendo in scena "Una stagione in Congo"


PARTIRE

Come ci sono uomini-iena e uomini-
pantera, sarei un uomo-ebreo
un uomo-cafro
un uomo-indù di Calcutta
un uomo di Harlem che non vota

l'uomo-carestia, l'uomo-insulto, l'uomo-tortura
si poteva in ogni momento afferrarlo, avvolgerlo
di colpi, ucciderlo - perfettamente ucciderlo - senza dovere
rendere conto ad alcuno, senza avere scuse da presentare ad alcuno
un uomo-ebreo
un uomo-pogrom
un cucciolo
un mendicante

ma si uccide il Rimorso, bello come la
faccia stupita di una signora inglese che trovasse
nella sua zuppiera un cranio di Ottentotto?

da Diario di ritorno al paese natale, 1939









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LA FRASE DEL GIORNO
Lo specchio, per sé, non vede. Lo specchio è come la verità.
LUIGI PIRANDELLO, La trappola




Aimé Fernand David Césaire (Basse-Pointe, 26 giugno 1913 – Fort-de-France, 17 aprile 2008) è stato un poeta, scrittore e politico francese, originario della Martinica.  Il concetto di "négritude", la consapevolezza orgogliosa della sua appartenenza alla popolazione delle Antille discendente dagli schiavi, è espresso con suggestiva forza verbale soprattutto nelle poesie e nel teatro.


giovedì 17 aprile 2008

Diego Valeri (II)


Il critico Giacomo Debenedetti, per l’uscita della raccolta Il flauto a due canne, nel 1958 definì le liriche di Diego Valeri “poesia delle vacanze” e il poeta stesso “poeta del bene di vivere” in contrasto con i tre grandi poeti del Novecento: Montale, Saba e Ungaretti, aedi del male di vivere. Ebbene, questa sua forza vitale, come già abbiamo visto, erompe da ogni sua poesia, che sia la folle gioia della vicinanza della donna amata, presenza che meraviglia e inebria, o sia l’imponente presenza della natura e dei suoi colori che lascia trapelare i sentimenti del poeta con una calma paziente. Non l’eruttare del vulcano quindi, ma il lento scorrere della lava sulle pendici. La stessa olimpica serenità con la quale il Valeri novantenne di “Calle del vento”, sul finire della sua vita, oppone la soggettività trascendentale all’essere mondano: un abbandono non rassegnato ma piuttosto un’accettazione del destino umano, un’aderire ancora una volta alla natura.


da Poesie vecchie e nuove, 1930

MILANO


Corso Venezia rombava e cantava
come un giovane fiume a primavera.
Noi due, sperduti, s’andava s’andava,
tra la folla ubriaca della sera.


Ti guardavo nel viso a quando a quando:
eri un aperto luminoso fiore.
Poi ti prendevo la mano tremando:
e mi pareva di prenderti il cuore.


da Terzo tempo, 1950

ALBERO


Tutto il cielo cammina come un fiume,
grandi blocchi traendo di fiamma e d'ombra.
Tutto il mare rompe, onda dietro onda,
splendido, alle sfuggenti dune.

L'albero, chiuso nel puro contorno,
oscuro come uno che sta su la soglia,
muto guarda, senza battere foglia,
gli spazi agitati dal trapasso del giorno.


da Poesie, 1962

DESTARMI ACCANTO A TE


Destarmi accanto a te, nella prima
luce, e vederti dormire,
così bianca, così fragile e fina
da sentirmi volontà di morire.


Baciare le tue palpebre molli,
bianche farfalle che volano via,
scoprendo due fiori divini
di nerazzurra malinconia.

Baciare il tuo viso mattutino
ancora bagnato di sonno,
il tuo viso esiguo di bambino,
tutto bianco e tenero e biondo.

Baciare su le tue labbra il profumo
della tua profonda primavera,
e tutta respirarti, con l’oscuro
mio cuore, bianca anima leggera.

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MA IL DOLCE VISO…


Ma il dolce viso che s’inombra, gli occhi
sbiancati, la parola che vacilla
e sprofonda nel cuore, e quel fuggire
lungo, sparso, di tutto il sangue; il punto
in cui non c’è che una vita, la vita
col suo morire e ricrearsi eterno:
quello è pur nostro bene, palpitante
amicizia dei sensi, fuggitiva
luce di gioia, nostra disperata-
mente breve ora d’immortalità.


da Calle del vento, 1975

L’ISTANTE CHE NON STA


L’istante che non sta,
che mentre è, già non è più:
l’innumerevole istante.
Tu vedi: è stolto temere la morte
se, vivendo, ogni istante si muore.


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I GIORNI, I MESI, GLI ANNI


I giorni, i mesi, gli anni,
dove mai sono andati?
Questo piccolo vento
che trema alla mia porta,
uno a uno, in silenzio,
se li è portati via.
Questo piccolo vento
foglia a foglia mi spoglia
dell’ultimo mio verde
già spento. E così sia.


Vedi anche: http://cantosirene.blogspot.com/2008/04/diego-valeri.html








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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia nasce non dall'our life's work, dalla normalità delle nostre occupazioni, ma dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita.
CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, 16 aprile 1940





Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), poeta, traduttore e accademico italiano, fu ordinario di Letteratura Francese all’Università di Padova per oltre vent’anni, tranne nel periodo 1943-45 quando riparò in Svizzera come rifugiato politico.


mercoledì 16 aprile 2008

La forma della poesia


La Queen's English Society, importante associazione culturale inglese, invoca una definizione ufficiale e precisa di poesia. In pratica, vorrebbe che si definisse tale solo la poesia che utilizza le rime e i versi tradizionali: altrimenti, dice il portavoce, Lord Lamb, si tratterebbe di prosa che va a capo ogni tanto.

Siamo d'accordo che il sonetto, il madrigale e altre antiche forme di componimento debbano essere ingabbiate in questi canoni. Ma il verso libero, apparso in Italia già nel Duecento, è parte integrante della poesia. Questa, in effetti, non è data dalle rime e dalla metrica, ma dalla musicalità, dall'uso delle immagini e delle parole, dalla sorpresa, dalla meraviglia che riesce a suscitare nel lettore, dal modo di evocare, di alludere: la poesia è una penombra in cui distinguere oggetti indistinti, la prosa è una piena luce.

Patrizia Valduga, che pure scrive in endecasillabi rimati e che pratica sovente la terzina dantesca, dice che non concorda con la Queen's English Society e rivendica la sua scelta: "Per me scrivere in rima è un obbligo, una costrizione. Ho bisogno di una struttura chiusa per sentirmi libera".

Giuseppe Conte apre invece a un ritorno alla schematica della poesia: "Le rime sono state saccheggiate da canzoni e pubblicità, e abbandonate dalla poesia, che invece dovrebbe inventarne di nuove e sorprendenti".

Valerio Magrelli ricorda Robert Frost: il poeta americano diceva che "scrivere poesie senza rime e senza metro è come giocare a tennis senza rete"; lo stesso Magrelli però cita anche Montale, fiero di aver sistemato un componimento con una "zeppa", perché altrimenti gli sarebbe venuto un endecasillabo.

Maurizio Cucchi affida a versi d'occasione la sua risposta:
"La norma è cangiante e interna,
giorno per giorno muta forma e senso:
Le forme sono storia, la storia
è tempo, che nel tempo
passa cambiando veste e idea.
Il verso stesso, diceva un grande,
non è essenziale alla poesia.
Lasciamo ai pedanti l'ansia
cupa e sinistra di definire..."

Massima libertà, dunque, un'anarchia del verso, tenendo sempre ben presente la distinzione fatta da Samuel Taylor Coleridge: "Prosa: parole nel loro ordine migliore. Poesia: le migliori parole nel loro ordine migliore".


Jean-Henri Fragonard, "La ragazza che legge"


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LA FRASE DEL GIORNO
Un'anima è fatta di fuoco e di cristalli di rocca. È una cosa molto severa e dura in senso vetero-testamentario ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie ciglia.
ETTY HILLESUM, Diario 1941-1943

martedì 15 aprile 2008

Era diverso aprile


MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

NULLA RIMASE D'APRILE


"Era diverso aprile, allora
c'era allegria, e tracce di cozze
sulla scogliera, canzoni
in riva al tramonto, pretendenti
vanamente appostati agli angoli".


(da Memoria e desiderio, 1986)


Il poeta di questi pochi versi è Manuel Vázquez Montalbán, noto per la serie di gialli del detective-gourmet Pepe Carvalho. Il protagonista è il passato, l'epoca che nella memoria ci appare invariabilmente come una perduta età dell'oro, un tempo da rimpiangere, da conservare e trattenere con dolcezza e nostalgia.
"Là dove noi non siamo, si sta bene. Nel passato noi non ci siamo più ed esso ci appare bellissimo" scrisse Anton Cechov. Credo che questa sia una profonda verità: perché tutti noi, che pure ci professiamo con Orazio "lodatori del passato", non possiamo certo rimpiangere davvero ciò che fu, dimenticare che anche allora la tristezza ci prendeva, che l'inquietudine e l'ansia attraversavano i nostri giorni anche in quella terra che ora ci pare meravigliosa e che mitologizziamo come una nuova Atlantide.
Sì, era diverso aprile, allora. Ed ora è dolce ricordare. Ma solo questo.




Foto: Sondra Wampler


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LA FRASE DEL GIORNO
L'uomo non si vergogna di peccare, ma si vergogna di pentirsi.
DANIEL DEFOE, Robinson Crusoe




Manuel Vázquez Montalbán (Barcellona, 14 luglio 1939 – Bangkok, 18 ottobre 2003), scrittore, saggista, giornalista, poeta e gastronomo spagnolo, è celebre soprattutto per i romanzi gialli in cui è protagonista l’investigatore privato Pepe Carvalho.


lunedì 14 aprile 2008

Nuovo romanzo di Ruiz Zafón


Il 17 aprile esce in Spagna il nuovo romanzo di Carlos Ruiz Zafón, autore del celebrato “L’ombra del vento”, edito nel 2001 e pubblicato in cinquanta paesi per oltre dieci milioni di copie.

“El juego del ángel“, il nuovo titolo, ha un argomento indipendente dall’opera che ha dato la fama allo scrittore spagnolo, ma, come racconta lui stesso alla stampa iberica, «i lettori troveranno molti elementi che potranno collegare ad essa e che aggiungono un livello addizionale di diletto e di intensità della lettura». Non solo: vi appaiono anche dei personaggi del libro precedente, in un modo che però sorprenderà.

«L’idea del ciclo di quattro romanzi ubicati nella Barcellona del Cimitero dei Libri Dimenticati» dice Ruiz Zafón «è che ognuno di questi libri sia una porta di ingresso ad un universo che cresce e si arricchisce con ogni lettura, quale che sia l’ordine nel quale si leggono i romanzi o anche solo se se ne leggano due o tre».


Ruiz Zafón spiega anche il suo metodo di lavoro: «All’inizio scrivo due o tre ore al giorno e dedico molto più tempo a pensare al libro, alla struttura e agli elementi da impiegare. Man mano che avanza il procedimento, lavoro sul terreno più ore, di solito la notte, e inizio a scrivere e a ricostruire. Verso la fine posso arrivare a scrivere e riscrivere quasi dodici ore al giorno o anche di più».


Per invitarci a leggere il suo nuovo romanzo, che presto sarà tradotto anche in Italia, lo scrittore spagnolo dice: «Il libro è come un bacio. Non si può spiegarlo a priori».

Mondadori annuncia l'uscita del romanzo "Il gioco dell'angelo" per ottobre 2008









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LA FRASE DEL GIORNO
Il sentimento d’amore ci dà invariabilmente la falsa illusione della conoscenza.
MILAN KUNDERA, L’immortalità




Carlos Ruiz Zafón (Barcellona, 25 settembre 1964 , scrittore spagnolo. Ha iniziato la sua carriera letteraria nei primi anni Novanta come autore di libri per ragazzi, giungendo al successo nel 2002, quando ha pubblicato con la casa editrice Planeta La sombra del viento (L'ombra del vento, traduzione italiana, 2004).