giovedì 30 giugno 2011

Czesław Miłosz


Ricorre oggi il centenario della nascita di Czesław Miłosz, poeta polacco naturalizzato statunitense, Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Nacque infatti il 30 giugno 1911 a Szetejnie, ora in territorio lituano.  Poeta, ma anche saggista e traduttore: nel 1953 pubblicò La mente prigioniera, denuncia della passività degli intellettuali polacchi – ma anche dei francesi marxisti conosciuti a Parigi –  di fronte al totalitarismo staliniano; nel 1977 La terra di Ulro, riflessione sulla poesia e sull’attività dello scrittore; nel 1998 Il cagnolino lungo la strada, autobiografia con aforismi e poesie. Una voce contro i totalitarismi: si dichiarava amico di antifascisti come Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone e i suoi versi vennero trascritti nelle piazze dagli operai di Solidarnosc per onorare i lavoratori uccisi dal regime comunista nel 1981. Intanto Miłosz insegnava poesia in California e scriveva i suoi versi ispirati da Simone Weil, Selma Lagerlof, William Blake, Emanuel Swedenborg. Un cattolico praticante attirato dagli eretici… Tornato in patria dopo la caduta del regime, morì a Cracovia il 14 agosto 2004. Aveva 93 anni.

Così Lars Gyllensten, membro dell’Accademia Svedese, presentò l’autore in occasione del discorso per la premiazione: “Il mondo che Miłosz ritrae in poesia e in prosa, nelle opere e nei saggi, è il mondo in cui l'uomo vive dopo essere stato cacciato dal paradiso. Ma il paradiso da cui è stato bandito non è un idillio, ma un vero e proprio Eden del Vecchio Testamento, in meglio o in peggio, con il Serpente come un rivale per la supremazia. Le forze distruttive e infide si confondono con quelle buone e creative – entrambe ugualmente reali e presenti”. E Czesław Miłosz precisò nella lettura a Stoccolma la sua idea di poesia: “Quindi, due sono gli attributi del poeta: l’avidità degli occhi e il desiderio di descrivere ciò che vede. Eppure, chi consideri la poesia come "vedere e descrivere" deve essere consapevole che si impegna in una lite con la modernità, affascinato come è da innumerevoli teorie di uno specifico linguaggio poetico”.

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IL POVERO POETA


Il primo movimento è il canto,
libera voce che riempie le valli e le montagne.
Il primo movimento è la gioia,
che però viene sottratta.

E dopo che il sangue si mutò negli anni,
e mille sistemi planetari nacquero e si estinsero nel corpo,
siedo, poeta capzioso e iroso,
con occhi malignamente socchiusi,
e soppesando la penna nella mano
medito vendetta.

Drizzo la penna, e butta gemme e foglie, si ricopre di fiori,
spudorato è il profumo di quest'albero, perché là
nel mondo reale
alberi così non crescono, ed è come un affronto
fatto alla gente che soffre il profumo di quest'albero.

C'è chi trova rifugio nella disperazione, dolce
come un tabacco forte, un bicchiere di vodka
bevuto nell'ora della perdita.
Per altri c'è la speranza degli stupidi
rosea come un sogno erotico.

Altri ancora trovano pace idolatrando la patria,
e può durare a lungo, ma non più di quanto
ancora dura l'Ottocento.

Ed a me è data un speranza cinica,
perché da quando ho aperto gli occhi ho visto solo
bagliori sinistri e stragi,
svilimento, ingiustizia, e la ridicola
infamia dei boriosi.
Data mi è una speranza di vendetta
sugli altri e su me stesso,
perché ero colui che sapeva
e da questo non trasse alcun vantaggio.

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DONO


Un giorno così felice.
La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino.
I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio.
Non c’era cosa sulla terra che desiderassi avere.
Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare.
Il male accadutomi, l’avevo dimenticato.
Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono.
Nessun dolore nel mio corpo.
Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e le vele.

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SUGLI ANGELI


Vi hanno tolto le vesti bianche,
le ali e perfino l’esistenza.
Tuttavia io vi credo messaggeri,
Là dove il mondo è girato a rovescio,
pesante stoffa ricamata di stelle e animali.
Passeggiate esaminando
i punti veritieri della cucitura.
La vostra tappa qui è breve,
forse nell’ora mattutina,
se il cielo è limpido.

In una melodia ripetuta da un ruscello,
O nel profumo delle mele verso sera
quando la luce rende magici i frutteti.

Dicono che vi abbia inventato qualcuno,
ma non ne sono convinto.
Perché gli uomini hanno inventato
anche se stessi.

La voce - senza dubbio questa è la prova.
Perché appartiene a esseri
indubbiamente limpidi.
Leggeri, alati (perché no?)
Cinti dalla folgore.
Ho udito sovente questa voce in sogno
e cosa ancor più strana
capivo pressappoco il dettame
o l’invito in lingua ultraterrena:
È presto giorno.
Ancora uno.
Fa’ ciò che puoi.

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LA FRASE DEL GIORNO

L’utilità della poesia sta nel ricordarci / quanto sia difficile restare la stessa persona, / perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave, / e ospiti invisibili entrano ed escono.
CZESŁAW MIŁOSZ, Ars poetica?




Czesław Miłosz (Šeteniai, Lituania, 30 giugno 1911 – Cracovia, 14 agosto 2004),  poeta e saggista polacco. La sua poesia ha grandi ambizioni formali e una decisa intonazione pessimistica. Nel 1980 gli fu conferito il Nobel con la seguente motivazione: “A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell'uomo in un mondo di duri conflitti”.


mercoledì 29 giugno 2011

Telefono a fiori

 

ROBERT FROST

IL TELEFONO

«Oggi, arrivato al punto più lontano da qui
Della mia passeggiata,
Un'ora c'è stata
Tutta tranquilla
Che accostando l'orecchio contro un fiore
Ti ho sentita parlare.
Non dirmi che non è vero, ti ho sentita, dicevi...
Parlavi da quel fiore che hai sul davanzale...
Ti ricordi che cosa dicevi?».

«Dimmi prima che cosa tu hai creduto di udire.»

«Trovato il fiore, un'ape ho allontanata,
La testa ho reclinata,
E sorreggendo lo stelo
Ho ascoltato, ho creduto capire la parola...
Quale parola? Mi chiamavi per nome?
O tu dicevi... qualcuno
Diceva "vieni"... e chiamandomi udivo.»

«Ad alta voce no, ma forse questo ho pensato.»

«Allora eccomi, sono arrivato.»

(da Mountain interval, 1916 – Traduzione di Giovani Giudici)

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Il poeta americano Robert Frost mi ha sempre affascinato per queste sue “visioni” che scavano nei rapporti umani e giungono fino al «cuore di tenebra». La strada non presa che genera a un bivio altre strade sulle quali non si tornerà mai senza sapere cosa ci avrebbero riservato, lo scintillio indefinito di qualcosa intravisto in un pozzo, l’incontrarsi per un istante per poi passare oltre, la conoscenza del lato oscuro, il desiderio di solitudine per ritrovarsi. E poi c’è questo idillio romantico, questo gioco d’innamorati in cui a fare da telefono senza fili , quasi ottant’anni prima della diffusione dei cellulari, sono due fiori, veicolo dell’empatia. A evidenziare quello che lo stesso Frost scrisse sulla “meraviglia” della poesia: “Per me la gioia iniziale è nella sorpresa di ricordare qualcosa che non sapevo di sapere. Sono in un posto, una situazione, come materializzato da una nuvola o sorto da terra. V’è un felice riconoscimento del lungamente perduto e il resto segue. Lo stupore per le riserve inaspettate seguita a crescere passo passo”.

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Fotografia © District of charm

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LA FRASE DEL GIORNO
Che dolce cosa è amare, quando non vi sono ostacoli alle amabili catene con cui due cuori si legano l'un l'altro! 
MOLIÉRE, Le furberie di Scapino, Atto III, scena I




Robert Lee Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963), poeta statunitense, vincitore di quattro Premi Pulitzer. Le sue poesie, attraverso la raffigurazione con una notevole padronanza del linguaggio colloquiale della vita rurale del New England all’inizio del ‘900, indagano temi sociali e filosofici. La strada non presa è la sua poesia più celebre.


martedì 28 giugno 2011

La noia per la noia


AMALIA GUGLIELMINETTI

TEDIATA

Tu t'abbandoni, o pallida indolente,
nella ricca mollezza de' cuscini,
e in sonnolenta voluttà reclini
le ciglia gravi tediosamente,

quasi un'ebrezza tenue la tua mente
oziosa per strane ombre trascini,
o velino i tuoi occhi felini
soporiferi aromi d'oriente.

O sei come una bella agile tigre,
che s'allunghi a giacer sotto una palma,
con tue movenze regalmente pigre.

Ma non t'insidia il serpe tentatore,
e tu per scuoter la tua uggiosa calma
ti lasceresti pur suggere il cuore.

(da Le Vergini folli, 1907)

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La noia per la noia, l’ennui, la “noia annoiata” come ho sentito dire: mi è capitato talvolta, attendendo un treno che tardava a lungo o in una sala d’aspetto di un ospedale, di non avere voglia di leggere il giornale che pure avevo comprato all’edicola o il libro che mi ero portato appresso. Seduto su una panchina, mi sono lasciato prendere da quella noia, avvolgere da quello stato annoiato – non pigrizia, non accidia, proprio noia – e di rimanere a guardare la vita scorrere, incapace di ridestarmi da quella monotonia in cui i secondi, i minuti parevano scorrere rallentati. Noia, non lo spleen baudelairiano fatto di tristezza, disperazione e incapacità di rapportarsi con il mondo esteriore. Una noia più leopardiana, ma meno definitiva. Una noia crepuscolare, al confine con la sonnolenza, come quella che prova una delle “Vergini folli” di Amalia Guglielminetti, poetessa torinese amica e amante di Guido Gozzano: “la torbida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare” come scrisse Giuseppe Antonio Borgese.

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LA FRASE DEL GIORNO
La noia può essere così intensa da diventare un’esperienza mistica.
LOGAN PEARSALL SMITH, Afterthoughts, 4




Amalia Guglielminetti (Torino, 4 aprile 1881 – 4 dicembre 1941), scrittrice e poetessa italiana. L'accento più profondo della sua poesia è in quel senso di tristezza e di tedio, in cui alla fine si conchiude la sterile pena della carne, alla quale in realtà la poetessa soggiace come vittima, mentre s'illude di dominarla per deliberata volontà di esperienza.


lunedì 27 giugno 2011

Guardare il cielo

 

ALESSANDRO PARRONCHI

PREGHIERA DEL FARISEO

Signore ti ringrazio
che mi hai fatto superbo di natura,
o almeno tale da sembrarlo quanto
basta perché gli altri mi detestino.
Non sono certo simile a colui
che sa piegarsi (per meglio sopraffare)
e davanti ai suoi simili si annulla
(per ridurli a discrezione)...
Ma non ho fede salda e per cercarti
non so far altro che guardare il cielo
come l'uomo primitivo. Ma non provo
desiderio di te né nostalgia.
Solo un senso di vuoto, che mi colma
questo cielo di Roma che sugli orti
della Lungara imporpora
traversato dai voli dei migratori
fulmini bruni a sbalzi nella sera.

Signore, chi ti cerca
che altro può fare che guardare il cielo?
Un cielo ormai corrotto
eppure ancora a tua immagine fatto
lo si pensa, e il vederlo ci rasserena.
Gli altri, il prossimo mio,
si sospingono, si urtano, si ignorano
o si cercano solo per uccidersi.
Questo abisso facci risalire
a poco a poco verso la sorpresa
di scoprirsi fratelli,
per uscire dall'io piccolo, ignoto,
per svegliarsi nel caldo di un abbraccio.

(da Climax, Garzanti, 1990)

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Il fariseo, nell’accezione cristiana mutuata dai Vangeli, da adepto di una setta religiosa che faceva della stretta osservanza della legge il suo cardine si è trasformato in una persona cattedratica, ipocrita, che guarda più alla forma delle proprie azioni e di quelle degli altri piuttosto che alla loro sostanza. (“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” Matteo, 23,23). Alessandro Parronchi prova a dare voce alla preghiera di uno di essi, modernamente inteso, umanizzandolo e in certo senso giustificandone la posizione.

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FOTOGRAFIA © DELHIIT SOLUTIONS

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LA FRASE DEL GIORNO
I farisei e gli scribi hanno ricevuto le chiavi della conoscenza, ma essi le hanno nascoste: non hanno saputo entrare essi stessi, né hanno lasciato entrare quelli che lo desideravano.
VANGELO DI TOMMASO




Alessandro Parronchi (Firenze, 26 dicembre 1914 – 6 gennaio 2007), poeta, storico dell'arte e traduttore italiano. Con il suo stile ricercato è passato da un ermetismo  incantato a un intimismo che trae giovamento dalla consolazione della memoria: per questo le sue poesie sono oggetto di un meditato lavorio con cui il ricordo media l’emozione.


domenica 26 giugno 2011

La coazione a scrivere

 

ROSE AUSLÄNDER

NON DIMENTICO

Non dimentico

la casa avita
la voce materna
il primo bacio
i morti della Bukowina
la fuga nella prima guerra mondiale
gli stenti a Vienna
le bombe nella seconda guerra mondiale
l'ingresso dei nazisti
il tremare di paura in cantina
il medico che ci salvò la vita
l'America dolceamara

Hölderlin Trakl Celan

il mio tormento di scrivere
la coazione a scrivere
tuttora

(da Poesie scelte, MUP, 2004 - Traduzione di Maria Enrica D'Agostini)

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La coazione a scrivere come la coazione a ripetere della psicologia freudiana, ovvero la pulsione che spinge il soggetto a ricercare inconsapevolmente le situazioni dolorose già vissute: così si analizza Rose Ausländer, poetessa nata nel 1901 a Cernovitz, in Bukowina, territorio passato  nel corso del XX secolo dall’impero asburgico alla Romania, all’Unione Sovietica e poi all’Ucraina. La Ausländer, ebrea di madre lingua tedesca, rivive tutta la sua storia, dall’infanzia alle due guerre mondiali, all’emigrazione negli Stati Uniti negli Anni Venti, al terribile periodo nazista, alla nuova fuga in America con il rifiuto di scrivere nella sua lingua, “la lingua degli assassini”. Rose in tutti questi anni scrive sempre: scrive del passato, scrive dei drammi che ha vissuto perché “ho sete di te / ti bevo parola per parola / mia sorgente” e “Cerco la parola / parola fra le righe / nella danza variopinta delle lettere dell’alfabeto”. Scrive e scrive, viaggiando per il mondo, spostandosi alla ricerca di una patria: la troverà a Dusseldorf, nella nemica Germania, dove si ritirerà nel 1966, e scriverà ancora fino al 3 gennaio 1988, quando il silenzio cadrà su di lei nella casa di riposo “Nelly Sachs”.

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Fotografia © Pixabay

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LA FRASE DEL GIORNO
Scrivo / ogni lettera è un germe / la memoria / rilancia le maree / e il suo mezzodì.
OCTAVIO PAZ, Salamandra




Nelly Sachs (Berlino, 10 dicembre 1891 – Stoccolma, 12 maggio 1970), poetessa e scrittrice tedesca naturalizzata svedese, insignita nel 1966 del Premio Nobel per la letteratura.  Nelle sue poesie si fondono il destino personale e quello del popolo di Israele, ossessivamente evocati tramite un linguaggio immaginifico che si fonda su tradizioni antiche personalmente recuperate. 




sabato 25 giugno 2011

Appoggiati alla mia spalla


GU CHENG

RITORNO

Non andare a dormire, no
Amore mio, la strada è ancora lunga
non accostarti alle seduzioni della foresta
non perdere la speranza

Per favore con gelida acqua di neve
scrivi l’indirizzo sulla mano
oppure appoggiati alla mia spalla
per attraversare la semioscurità dell’alba

Aperta la tempesta trasparente
possiamo ritornare a casa
un cerchio di terra verde
si stende vicino a un’antica pagoda

Io sarò là
difenderò i tuoi sogni sfiniti:
respingerò folle di notti nere
lascerò solo i tamburi di bronzo e il sole

Dall’altro lato dell’antica pagoda
molte minuscole onde del mare
si arrampicano sulla sabbia silenziose
raccogliendo suoni tremolanti…

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Non si può leggere questa poesia del cinese Gu Cheng, nato a Pechino nel 1956 ed esule in Nuova Zelanda, senza rabbrividire pensando alla sua tragica fine: infatti, l’8 ottobre 1993, nella sua casa di Ostend, vicino ad Auckland, Gu Cheng uccise la moglie Xie Ye con un’ascia e poi si tolse la vita. Non si può fare a meno di chiedersi dove è finito quell’uomo dolce e protettivo che dice al suo amore “appoggiati alla mia spalla” e “difenderò i tuoi sogni”. Ci si domanda se non fosse altro che un’ipersensibilità così elevata da rendere Gu incapace di vivere sopportando la disperazione dell’esilio, un acuto intellettuale inadatto ad allacciare nuovi legami lontano dalla madrepatria, un sole che alla fine è imploso.

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Fotografia © Sweetmoonightmediablog

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LA FRASE DEL GIORNO
La mia poesia / Somiglia ai piccoli fiori senza nome / Che si aprono quieti / In mezzo alle umane solitudini, / seguendo brezze e piogge di stagione.
GU CHENG, Fiori senza nome




Gu Cheng (Pechino, 24 settembre 1956 – Ostend, Nuova Zelanda, 8 ottobre 1993), poeta, saggista e romanziere cinese moderno. Era un membro di spicco dei " Misty Poets ", un gruppo di poeti modernisti cinesi. Alla fine degli anni '70, si associò alla rivista Today che diede nizio a un movimento di poesia noto come "menglong", che significa "vago", "oscuro".


venerdì 24 giugno 2011

L’anniversario dell’insalata

 

Nel 1987 fece scalpore una raccolta di poesia, che vendette in Giappone tre milioni di copie, un numero che in Italia si sognano anche i bestsellers. Soprattutto, perché non erano le poesie di un riconosciuto maestro, ma l’opera prima di una giovane insegnante giapponese, fresca di baccalaureato in letteratura, la venticinquenne Tawara Machi. Quella raccolta si intitolava Sarada kinebi, «l’anniversario dell’insalata», e comprendeva 436 tanka, uno dei classici generi poetici giapponesi, composto da 31 sillabe disposte in  cinque versi. Tre milioni di copie sono tanti, anche perché i versi della Machi sono spesso banali e degni dei copywriters della pubblicità, una commistione di alto e basso - più il basso a dire il vero – nel tentativo di inserire elementi e vocaboli moderni nel tessuto classico: evidentemente la sensibilità popolare era riuscita a trovare nei tanka di Tawara quel minimalismo che li faceva sentire come propri, un forte senso di identificazione. Lei stessa dichiarò: “Mi piace cucinare, amo il mare e scrivere lettere. Da ogni mia giornata, anche se non ha niente di speciale, cerco di estrarre almeno un buon tanka. Voglio vivere a tutta forza: sono la normalissima Tawara Machi”. E allora, dal ritaglio di giornale che ho ritrovato nel mio archivio, ecco qualche esempio di questi tanka.

 



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È un sapore 
buonissimo dici
e per averlo detto
il 6 di luglio sarà sempre
l'anniversario dell'insalata.

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Butti lì:
che freddo!
Qualcuno vicino risponde:
sì, che freddo!
Ed è subito caldo.
 

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Un uomo
è la bottiglia
che al club si impegnano a tenerti
Finito l'impegno
che giorno sereno.

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«I crochi sono fioriti»
Ecco l'inizio
della lettera
che all'improvviso
ho voluto scrivere.

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Nel 1991 un secondo libro di tanka, intitolato Kaze no tenohira («Il vento sul palmo della mano»), non bissò il successo di Sarada kinenbi, ma Tawara Machi non si scoraggiò: ha continuato, mentre traduceva opere dal giapponese antico al moderno, a scrivere poesie, affinando la sua tecnica: è del 1997 Chokorēto kakumei, («La rivoluzione del cioccolato»). Del 2004 è il romanzo Torianguru («Triangolo»).

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LA FRASE DEL GIORNO
Usare poche parole per trasformare una fetta di mondo in una saporita porzione di sentimento e in uno scenario è affascinante.
TAWARA MACHI, intervista a Simply Haiku, Anno IV, n. 1, primavera 2006




Tawara Machi (Osaka, 31 dicembre 1962), poetessa, scrittrice e traduttrice giapponese, celebre soprattutto per aver ridato vita allo stile tanka della tradizione poetica nipponica. La sua raccolta L’anniversario dell’insalata vendette tre milioni di copie nel 1987.


giovedì 23 giugno 2011

Lucca e Ungaretti



GIUSEPPE UNGARETTI

LUCCA

A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata
La città ha un traffico timorato e fanatico
In queste mura non ci si sta che di passaggio
Qui la meta è partire
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell'osteria con della gente che mi parla di California come d'un suo podere
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti
Ho preso anch'io una zappa
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere
Addio desideri, nostalgie.
So di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane più nulla da profanare, nulla da sognare.
Ho goduto di tutto, e sofferto.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo la vita.
Ora che considero, anch'io, l'amore come una garanzia della specie, ho in vista la morte.

(da L’Allegria, 1919)

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Una poesia di Giuseppe Ungaretti fa parte dei temi scelti quest’anno per la prova d’italiano alla maturità: è Lucca, una delle ultime raccolte nell’Allegria. Scritta tra Parigi e Milano nel 1919, segna, con le altre sei della sezione Prime, una mutata disposizione del poeta, un inizio di revisione del passato, un tentativo di inserire nell’età matura l’esperienza vissuta: ora Ungaretti ha trentun anni e viene dalla devastante esperienza della guerra. È una stagione nuova e il canto si fa più aperto, il versicolo viene abbandonato a favore di una prosa ritmica. In effetti, è come se quelle poesie appartenessero già a Sentimento del tempo.

“In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare” aveva scritto Ungaretti in Girovago. Eppure c’è un luogo nell’universo in cui il poeta può forse non sentirsi “straniero”. Non l’Alessandria d’Egitto dell’infanzia, non la Parigi artistica dove frequenta anarchici e socialisti. Se c’è un posto a cui sente di appartenere, quello è Lucca, la terra natale dei suoi avi, la città dei suoi genitori, “duemil’anni forse / di gente mia campagnola / e mio padre e mia madre” come già testimoniano I fiumi. È lì che si riconosce, nelle radici. È lì che capisce di seguire come gli altri un destino, non “una rinuncia alla libertà della vita, un adattamento al concetto borghese della vita” – sono parole dello stesso Ungaretti – ma la rilevazione che “l’uomo è misteriosamente chiamato a sopravviversi nell’ordine spirituale mediante la parola”. Proprio per questo Lucca è importante nel corpus ungarettiano: “Accettare la tradizione è stato, è ancora, per me, l’avventura più drammatica, è quell’avventura dalla quale sino ad oggi si svolge, in mezzo a difficoltà innumerevoli d’espressione, la mia poesia”.

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Ungaretti a Lucca © Lo schermo

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LA FRASE DEL GIORNO
Mi riconosco / immagine / passeggera // presa in un giro / immortale.
GIUSEPPE UNGARETTI, L’Allegria




Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.


mercoledì 22 giugno 2011

Il bacio di Sibilla


SIBILLA ALERAMO

LE MIE MANI

Le mie mani,
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio,
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente,
mani fatte per più dolci opere,
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo.

(da Poesie, Mondadori, 1929)

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Sibilla Aleramo si fece notare giovanissima, dopo aver lasciato alle spalle un matrimonio disastroso, scrivendo articoli con tendenze socialiste e femministe, tanto da arrivare a soli 24 anni alla direzione del giornale milanese Italia femminile. Questi versi che emanano una grande sensualità sono certamente evocativi dello spirito di Sibilla. Adesso ci sembrano solo le tredici righe di una bella poesia, ma se proviamo a ricreare mentalmente l’atmosfera dell’inizio dello scorso secolo, dovevano risultare scandalosi, segno dell’indipendenza di una donna libera e coraggiosa, capace di innamorarsi e di far innamorare di sé grandi nomi della cultura italiana: Umberto Boccioni, Scipio Slataper, Giovanni Papini, Giovanni Cena, Giovanni Boine e soprattutto Dino Campana, con il quale ebbe la relazione più breve e più tormentata ma anche più intensa. Ma qui, in questa poesia, Sibilla Aleramo racconta la solitudine della memoria, il ricordo dell’amore e il desiderio, il sogno di ciò che neppure avvenne e che si trasforma in un bacio virtuale.

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Fotografia di Man Ray

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LA FRASE DEL GIORNO
Quale un vento che non ha pietà, / tutto ti rapina l’iddio della poesia.
SIBILLA ALERAMO, Selva d’amore




Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), scrittrice e poetessa italiana. Attiva nell’impegno femminista, esordì con il romanzo autobiografico Una donna. La relazione con il poeta Dino Campana generò un importante carteggio e numerose poesie.

martedì 21 giugno 2011

Tre poesie per l’estate


Con il solstizio, la massima durata del giorno rispetto alla notte, comincia ufficialmente l’estate. Festeggiamola con alcune poesie che ne presentano la classica iconografia: il fieno, i ciliegi e il cuculo raccontati dal poeta tedesco Christoph Meckel, le brevi bellissime notti popolate di luci e panchine, evocate dall’intimista spagnolo Antonio Machado, i piatti di conserva e i grilli di una silenziosa notte del Sud testimoniata da Vittorio Bodini.
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FOTOGRAFIA © PARIDE81/WIKIPEDITHOMAS KINCADE, "CAFFÈ ITALIANO"


CHRISTOPH MECKEL

PAROLA ESTATE


Estate, lunga una parola:
il vento rivolta il fieno sul colle
e il sole beve al fiume
con calda lingua

Giardini di ciliegi tu doni al giorno
lungo una parola fiorita
e chiami paradiso la breve
notte, per un tratto

il cucù ti suggerisce alto
il suo nome
e tu lo pigli in parola
e lo battezzi nella sua lingua

perfetta estate:
le tue parole
trasportano fieno, e il giorno
è giovane o vecchio
perché tu l'hai chiamato fugace.


(Traduzione di Gio Batta Bucciol)
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ANTONIO MACHADO

NOTTE D'ESTATE


È una notte bellissima d’estate.
Nelle alte case stanno
spalancati i balconi
del vecchio borgo sulla vasta piazza.
In quell’ampio rettangolo deserto,
panchine di pietra, evonimi, acacie
disegnano in simetria
le nere ombre sulla bianca arena.
Allo zenit, la luna, e sulla torre
col quadrante alla luce l’orologio.
In questo vecchio borgo vado a zonzo
solo, come un fantasma.


(da Campi di Castiglia, 1912 - Traduzione di Claudio Rendina)

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VITTORIO BODINI

ESTATE. I GRANDI PIATTI


Estate. I grandi piatti di conserva
sulle terrazze
e il fumo che dai camini
nella luce s'invetria.

Ritrovano le cose nel sonno umano
il silenzio ch'è la loro forma.
Rivive così la vuota
carcassa d'un grillo
in una morte o delicata speranza.

Le formiche avanzano. Brilla
il coperchio come un re,
d'una scatola di latta.
E si ode il fiato sottile delle costellazioni,
quello dei santi nelle campane di vetro
sui freddi marmi dei comò.

Arcieri nelle grotte
saettano tori
e amori senza labbra,
occhi dalle palpebre lievemente arrossate
da un'intima congiuntivite.


(da Dopo la luna, 1956)
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LA FRASE DEL GIORNO
O primavera, o estate di passioni, bel tempo esclusivo…
BENIAMINO DAL FABBRO, Gli orologi del Cremlino



lunedì 20 giugno 2011

Fiori non ancora appassiti


WENDY COPE

FIORI

Certi uomini non ci penserebbero.
Tu invece sì. Tu spesso mi dicevi
che eri stato lì lì per comprarmi dei fiori
ma qualcosa era andato storto poi.

Il negozio era chiuso. O un dubbio avevi,
quel genere di dubbi che si affacciano
alla testa di gente come noi.
Ch'io gradissi i tuoi fiori dubitavi.

Sorridere m'hai fatto, e t'ho abbracciato.
Sorrido ancora adesso. E sappi che
quei fiori, caro, che non mi hai comprato
non sono ancora appassiti per me.

(Traduzione di Silvio Raffo)

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Va bene: metto le mani avanti e dichiaro che un uomo ogni tanto dovrebbe regalare dei fiori alla propria donna, vestire i panni del gentiluomo romantico. Detto questo, consideriamo il senso sospeso delle cose, che poi è il tempo del desiderio e della speranza, nonché del loro lato oscuro, l’illusione. Perché è proprio quel tempo sospeso che emerge da questi versi della poetessa inglese Wendy Cope. Prendiamoli come una didascalica manifestazione d’affetto, leggiamo in quel sorriso il vero amore, quello che si nutre di sé e del sentimento invece che dei gesti. Intanto io corro a comprare un mazzo di rose…

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Fotografia © Rex Features

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LA FRASE DEL GIORNO
Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla.
GIUSEPPE UNGARETTI, L’Allegria




Wendy Cope (Erith, 21 luglio 1945) è una poetessa britannica. Lettrice di Storia al St. Hilda’s College, ha esordito nel 1986 con Preparando una cioccolata per Kingsley Amis, facendosi notare per l’ironia e l’arguzia delle sue poesie.

domenica 19 giugno 2011

Svegliarsi insieme

 

EZRA POUND

SOFFITTA

Vieni, compiangiamo quelli che stanno meglio di noi.
Vieni, amica e ricorda
         che i ricchi hanno maggiordomi e non amici,
E noi abbiamo amici e non maggiordomi.
Vieni, compiangiamo gli sposati e non sposati.

L’alba entra a piccoli passi
         come una Pavlova dorata,
E io sono prossimo al mio desiderio.
Perché la vita non offre nulla di meglio
Che quest’ora di chiara freschezza,
         l’ora di svegliarsi insieme.

(da Lustra, 1916)

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L’ebbrezza che danno il sentimento d’amore e la bellezza non si compra: si manifesta più facilmente in una vecchia soffitta di Parigi che in un palazzo reale. Ezra Pound, pur nell’impressionismo lirico dei Lustra, raccolta in cui il poeta appare in prima persona come latore di poesia al mondo, lascia trasparire quella vena iconoclasta che verrà esplorata maggiormente negli anni a seguire. Insomma, meglio essere due liberi amanti parigini nel misero covo di una soffitta, sorpresi dalla luce dell’alba che si presenta con il passo leggero di una ballerina che i tanto osannati William e Kate…

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Scena da Breaking Dawn © eOne Films

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LA FRASE DEL GIORNO
C'è vera condivisione solo nella povertà. C'è vera ricchezza solo nella condivisione.
ROGER ETCHEGARAY, Il ricco è perduto




Ezra Weston Loomis Pound (Hailey, Idaho, 30 ottobre 1885 – Venezia, 1º novembre 1972), poeta, saggista e traduttore statunitense. Visse per lo più in Europa – in Italia particolarmente - e fu uno dei protagonisti del modernismo e della poesia di inizio XX secolo: temi ricorrenti la nostalgia per il passato e la fusione tra culture diverse.


sabato 18 giugno 2011

Cos’è la poesia? (XX)

 

ELISEO DIEGO

NON È CHE

per la selva oscura

Una poesia altro non è
che una conversazione nella penombra
del vecchio forno, quando ormai
tutti se ne sono andati, e scricchiola
fuori il bosco profondo; una poesia

altro non è che alcune parole
che qualcuno ha amato, e cambiano
posto con il tempo, e adesso
non sono che una macchia,
una speranza indicibile;

una poesia altro non è
che la felicità, una conversazione
nella penombra, tutto
quello che è stato, e ora
è silenzio.

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Che cos’è la poesia? Ecco, ci risiamo, con il poeta cubano Eliseo Diego: torna l’idea della speranza, già indicata da Raffaele Carrieri. E quel titolo, così evocativo a richiamare la Divina Commedia, non è casuale: è l’indirizzo che Eliseo Diego ci dà per comprendere i suoi  versi. Nella selva oscura la poesia è luce, la fioca luce che emana un vecchio forno di sera, al cui chiarore proviamo a comprendere, a sollevare un lembo del mistero del vivere, di quel bosco scuro e profondo. È la luce che ci consente di interpretare ogni cosa, quello che è, quello che è stato, e nel suo raggio luminoso la realtà appare chiara, anche solo per un istante tra due silenzi.

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Penombra

FOTOGRAFIA © PAOLACAPP / PINTEREST

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LA FRASE DEL GIORNO
Con grafie chiare il poeta scrive le sue oscure verità.
OCTAVIO PAZ, Giorni feriali




Eliseo Diego (L'Avana, 2 luglio 1920 – Città del Messico, 1° marzo 1994), poeta cubano. La sua poesia, sempre intrisa di storie oniriche che si mescolano con la realtà, affronta questioni come la trascendenza nonostante la morte o la solitudine ed è una sfida verbale all'effimero della vita. 



venerdì 17 giugno 2011

Il viaggio dell’uomo

 

KRÌTON ATHANASÙLIS

IL VIAGGIO

Tutti ci domandiamo perché abbiamo lasciato
la casa tranquilla,
il fratello malato,
l'addolorata madre.

Che avremmo guadagnato se avessimo generato
con le donne straniere?
Se più grano
avessimo seminato sopra le tombe?
Abbiamo sradicato le nostre città,
bruciato gli alberi e i campi
e ci pentiamo
sopra la cenere delle nostre malefatte.
Quanti non hanno un letto per dormire,
vegliano e meditano.
Quanti non hanno pane,
hanno sogni.
Quanti non hanno fuoco per scaldarsi,
hanno speranze.
Quanti non hanno speranze e pensieri
muoiono di sorpresa
perché crudele è il male che ti coglie
impreparato
e crudele due volte la morte
che arrivando
non trova resistenza.
Ormai è tempo di dire
che questo viaggio
molto durerà,
perché le nostre strade sono ostruite
dai mali che ci precedono.
Viaggiamo e combattiamo,
e molti ci perdiamo nel tentativo,
ed altri con nostalgia desideriamo una fine,
perché ormai è perduto il cibo dell'anima
e il sonno pende dalle nostre palpebre.

(da Albergo «Il Mondo», 1956 – Traduzione di Cristino G. Sangiglio)

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L’uomo è al centro dell’indagine di Krìton Athanasùlis, poeta greco. L’uomo che perde la sua primitiva innocenza e che ha infranto l’equilibrio della sua anima, perdendone l’armonia, si trova a viaggiare in quell’albergo sospeso tra sogno e ossessionante incubo che è la Terra. Così l’emigrante ritratto in questi versi è certamente l’individuo che va in cerca di lavoro e di vita per il mondo – pensiamo ai coloni dell’antica Grecia, agli italiani e agli irlandesi che raggiunsero l’America tra il XIX e il XX secolo, ai nuovi disperati che raggiungono l’Italia sui barconi – ma è soprattutto l’uomo che va in cerca di qualcosa di certo e di stabile, che insegue “il cibo dell’anima” vagando in mezzo ai suoi simili che sente fratelli.

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Fotografia © Pro Genealogists

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LA FRASE DEL GIORNO
La vita è un mistero che si svela giorno per giorno, ma ogni giorno si copre di una nuova quantità di mistero, uguale e contraria.
ENNIO FLAIANO, Appunti, progetti, personaggi




Krìton Athanasùlis (Tripoli dell'Arcadia, 1916 - Atene, 24 ottobre 1979). Abbandonati gli studi di legge per la poesia, dal 1940 ha pubblicato numerose raccolte, il cui fiore è confluito nel volume Poesie (1966). Sensibile ai problemi civili e sociali, è ben noto in Italia per il Testamento (da Due uomini dentro di me, 1957), austera e commossa meditazione sugli orrori della guerra e sui valori della libertà. 


giovedì 16 giugno 2011

L’India maneggevole


MONIZA ALVI

MAPPA DELL’INDIA

Se fisso il paese abbastanza a lungo
riesco a sollevarlo dalla carta,
lo alzo come un lembo di pelle.

Talvolta è un calendario dell’avvento
ogni città ha una finestra
che lascio aperta
ogni volta un po’ di più.

L’India è maneggevole, più piccola della
mia mano, il fiume Mahanadi
più sottile della linea della vita.

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Che bella immagine questa della poetessa anglo-pakistana Moniza Alvi, nata a Lahore nel 1954 e cresciuta in Inghilterra, nell’Hertfordshire: la forza della poesia, la libera e sfrenata potenza della fantasia sono in grado di dare vita a una piatta carta geografica, sono capaci di concentrare quel paese di oltre tre milioni di chilometri quadrati nel palmo di una mano, di viaggiarvi sognando, toccando a piacimento città dopo città come se fossero le finestrelle aperte su un calendario dell’Avvento. Il grande nel piccolo, il piccolo nel grande: il miracolo della poesia, quello che nel cuore di una casa inglese trasforma il Mahanadi, fiume che attraversa lo stato dell’Orissa prima di gettarsi nel Golfo del Bengala, in una linea della vita.

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Immagine © Georgeta Blanaru/Pexels

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LA FRASE DEL GIORNO
La carta geografica, insomma, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è un’Odissea.
ITALO CALVINO, Collezione di sabbia




Moniza Alvi (Lahore, febbraio 1954), poetessa e scrittrice pakistano-britannica. Dopo aver esordito nel 1991 in un libro a quattro mani con Peter Daniels, Peacock Luggages, vincitore del Poetry Business Prize, ha pubblicato dieci raccolte di poesie.


mercoledì 15 giugno 2011

Nascere è una cosa molto lunga


MURILO MENDES

RIFLESSIONE N. 1

Nessuno sogna due volte lo stesso sogno
Nessuno fa il bagno due volte nello stesso fiume
Nessuno ama due volte la stessa donna.
Dio da cui tutto nasce
E il circolo e il movimento infinito.

Ancora non siamo abituati al mondo
Nascere è una cosa molto lunga.

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Il flusso temporale è irreversibile, come ben sapeva Eraclito, del quale qui è riportato il celebre aforisma sul fatto che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Il poeta surrealista e modernista brasiliano Murilo Mendes allarga il concetto della linearità del tempo, concludendo con un distico fulminante sulla nostra comprensione della natura conflittuale della realtà, dove visibile e invisibile variano continuamente.

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KURT SCHWITTERS, “DAS UNBILD”

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LA FRASE DEL GIORNO
La mia anima è un globo di fuoco / Che si consuma senza fine. / Il mio corpo è uno straniero / A cui porto pane ed acqua tutti i giorni.
MURILO MENDES




Murilo Monteiro Mendes (Juiz de Fora, 13 maggio 1901 – Lisbona, 13 agosto 1975), scrittore e poeta brasiliano, uno dei più importanti rappresentanti del modernismo e del surrealismo. La sua poesia creao una originale saldatura tra la tradizione barocca iberica e il surrealismo francese, con un processo di astrazione spaziale e temporale, alla ricerca della vera essenza degli uomini e delle cose, nella descrizione di argomenti di attualità trasfigurati oppure metafisici.

martedì 14 giugno 2011

Non sempre tesa

 

PIER PAOLO PASOLINI

MATTINO SERENO

Non sempre tesa è la vita,
anche il sole ha cenere e la canna
ai richiami del vento tace.

Ma rare grida,
ora, pigre corrompono il cielo,
son pietre nella piena corrente
del giorno, sparse.
Asse già di varie
ansie la vita, ma ora vagamente
posa nella mite ferita del sole.

(da I confini, Mondadori)

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“Non sempre”. Già l’avvio di questa poesia di Pier Paolo Pasolini è un segno di speranza. La vita, quella che in una poesia di Gesualdo Bufalino abbiamo visto capace di “stracciarti le vele, rubarti il timone, ammazzarti i compagni uno ad uno”, talvolta ci sorprende con la sua quiete, con la sua meravigliosa tranquillità. Come se il cavaliere allentasse le briglie al cavallo e lo lasciasse per qualche momento libero di fermarsi, di prendere fiato. E in quello squarcio di sole si può finalmente gustare la serenità, si possono dimenticare per un po’ le angosce.

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

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LA FRASE DEL GIORNO
La vita: sempre attimo, mai calcolabile in anticipo.
HERMANN HESSE, Il lupo della steppa




Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano. Culturalmente versatile, si distinse in numerosi campi, lasciando contributi anche come pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista.



lunedì 13 giugno 2011

La dolce allegria del passato


VICENTE GALLEGO

PROGETTI PER IL FUTURO

Questa sera sono ricco perché ho
un cielo d’argento tutto per me,
e sono il padrone di questa emozione
che è insieme nostalgia dei giorni passati
e dolce allegria di averli vissuti.
Ciò che mi ha lasciato mi appartiene,
trasformato in tristezza, e quel che infine intuisco
che non potrò raggiungere si è convertito
in un capitale gratuito di conformismo.
Il mio patrimonio aumenta ogni istante
di quello che sto perdendo, perché chi vive perde,
e perdere significa avere avuto.
Ora non ho più ambizioni, ma conservo
un progetto ambizioso quant’altri mai:
imparare a vivere senza ambizioni,
infine in pace con me e con il mondo.

(da La plata de los días, 1996)

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Il tempo passa, il tempo va. Se la nostra vita fosse una clessidra, potremmo scorgere la sabbia cadere e andare ad aumentare i giorni vissuti, diminuendo nel contempo la parte dei giorni a venire. Ricordi, avvenimenti, eventi belli e brutti, insignificanti anonime giornate e fastose occasioni di gloria. Nostalgia anche, per come eravamo, per quello che abbiamo fatto e per quello che non abbiamo fatto, per le parole che avremmo potuto dire, per i posti che avremmo potuto visitare e per quelli dove avremmo voluto fermarci più a lungo. Il poeta spagnolo Vicente Gallego si accontenta di una vita senza ambizioni, semplice, come quella che Orazio chiedeva ad Apollo: “Che in buona salute / goda di quello che ho; dammi, ti prego, / una mente sana e una vecchiaia non turpe / e non priva del conforto del canto”. Vivere con semplicità certo non è male, ma a noi che non siamo ancora pronti, che viviamo questo frenetico scorcio di XXI secolo, questi versi possono insegnarci almeno a non avere paura dei nostri ricordi, a non temere l’abbraccio della nostalgia. E a prenderci del tempo per noi, come quando un cielo serale ci fa sentire signori.

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

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LA FRASE DEL GIORNO
La speranza è una memoria che desidera, il ricordo è una memoria che ha goduto.
HONORÉ DE BALZAC, Un principe della Bohème




Vicente Gallego (Valencia, 1963),  poeta spagnolo considerato uno dei principali rappresentanti della poesia dell'esperienza, lirica romantica sulla bellezza della vita quotidiana che ha dominato la lirica spagnola negli anni '80 e '90 del  XX secolo.


domenica 12 giugno 2011

Il terzo bacio


SARA TEASDALE

IL BACIO NELLO SGUARDO


A primavera Stephen mi ha baciata
E Robin in autunno – Colin poi
semplicemente, mi ha solo guardata –
nemmeno il cenno d’un bacio da lui.

Ecco: il bacio di Stephen l’ho scordato,
quello di Robin pure in fumo è andato,
ma il terzo bacio, in quegli occhi di brace,
giorno e notte m’insidia, senza pace.


(da Gli amorosi incanti, Crocetti, 2010 – Traduzione di Silvio Raffo)

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“Guardarsi negli occhi è più indecente che andare a letto insieme” chiosò ironicamente, ma non troppo, il poeta francese Boris Vian. Se è vero, come si dice, che gli occhi sono lo specchio dell’anima, allora il più grande atto d’amore è guardarsi. E lo conferma la tormentata poetessa americana Sara Teasdale: questi versi hanno una sensibilità che ricorda un’altra grande poetessa statunitense, Emily Dickinson, e suonano vagamente ottocenteschi se consideriamo che furono scritti al tempo delle avanguardie e dello sperimentalismo. Ma sono tanto belli, a testimoniare che la poesia non ha forma e soprattutto che non è una moda.

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IMMAGINE © SUSSEX UNIVERSITY
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LA FRASE DEL GIORNO
Il primo amore mi ha donato il canto, / il secondo la vista senza inganno, / ma il terzo amore, oh, quello è stato / che la mia anima a me ha rivelato.
SARA TEASDALE, Gli amorosi incanti




Sara Teasdale (St. Louis, Missouri 8 agosto 1884 – 29 gennaio 1933), poetessa statunitense. La sua vita, caratterizzata dall’inquietudine e dalla nevrosi, finì con il suicidio. Le sue poesie, dimenticate per anni, corrono sul filo dell’ironia e di una voluta semplicità.