venerdì 31 ottobre 2014

Cedere con grazia

 

ROBERT FROST

RILUTTANZA

Fuori per campi e boschi
E oltre le mura ho viaggiato;
Salito su colline panoramiche
Ho guardato il mondo, sono sceso;
Per la via grande son tornato a casa,
Ed ecco ho terminato.

Le foglie sono tutte morte a terra,
Ma la quercia le sue trattiene
Per ammucchiarle una a una
E lasciarle graffiare e strisciare
Fuori sulla crosta di neve,
Quando le altre staranno a riposare.

Confuse e immobili le foglie morte,
Non più sbattute qua e là;
L’ultimo astro solitario è scomparso;
Appassiscono i fiori dell’hamamelis;
Ancora cerca e si tormenta il cuore,
Ma i passi domandano «dove?».

Ah, quando mai al cuore dell’uomo
Fu meno che un tradimento
Lasciarsi alla deriva delle cose,
Cedere con grazia alla ragione,
E piegarsi e accettare la fine
D’un amore e d’una stagione?

(Reluctance, da A boy’s will, 1913 - Traduzione di Giovanni Giudici)

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Robert Frost, poeta statunitense sovente immerso nell’atmosfera dei boschi e della campagna, riflette sul ritmo delle stagioni, sul naturale avvicendarsi, sul nascere e finire delle cose, e considera che solo degli uomini è questa riluttanza ad abbandonarle al loro destino - che sia un amore finito o un periodo della vita, siamo incapaci di chiudere i conti come fanno gli alberi, come fanno i fiori.

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Autunno

FOTOGRAFIA © NAOMI METZ/BBC

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LA FRASE DEL GIORNO
Noi amiamo le cose che amiamo per quel che sono.
ROBERT FROST, Mountain interval




Robert Lee Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963), poeta statunitense, vincitore di quattro Premi Pulitzer. Le sue poesie, attraverso la raffigurazione con una notevole padronanza del linguaggio colloquiale della vita rurale del New England all’inizio del ‘900, indagano temi sociali e filosofici. La strada non presa è la sua poesia più celebre.


giovedì 30 ottobre 2014

Centenario di James Laughlin

 

James Laughlin, di cui oggi  ricorre il centenario della nascita, poeta statunitense di Pittsburgh, arrivò alla poesia grazie all’esperienza editoriale presso “New Directions”: lì incontrò Archibald MacLeish, Marianne Moore, William Carlos Williams e soprattutto E.E. Cummings, che influenzò maggiormente degli altri la sua poesia. Echi di Cummings si notano qua e là negli scritti di Laughlin non solo per la tematica amorosa dove l’eros spesso sa risaltare, ma anche per la ricerca stilistica con la cesura di parole (fortunatamente ignorata dai traduttori qui proposti), all’interno di versi disposti in distici e per la totale assenza di punteggiatura.

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Laughlin

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LA GROTTA

China su di me i capelli
fanno una grotta intorno

al volto in oscurità ove
gli occhi non si vedono

quasi mi dice è un gatto
mi odia dice perché le

faccio trapelare la voglia
e sibila come un felino

offeso più che tenera
con le mani sotto la mia

nuca mi solleva la bocca
all’oscura grotta d’amore
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(The Cave, da Quello che la matita scrive, Guanda, 1970 – Trad. di Mary de Rachewiltz)

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LA VISITA

Dimmi ragazza implacabile chi
ti credi di affamare

con quel tuo eterno silenzio?
rifiuti di vedermi non

rispondi alle mie lettere né
al telefono eppure il mese scorso

per ben sei volte sei
entrata nei miei sogni e con una

luce incommensurabile hai
inondato il mio sonno le tue

visite sono meravigliose sei
più tenera più gaia di quanto

tu sia mai stata prima ritorna
ancora e ancora ragazza

implacabile torna il mio amore
ti sta aspettando.

(The Visitor - Traduzione di Marco Datini)

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ROMA: AL CAFFÈ

Viene alle undici lei la mattina
incontro a un uomo che la fa piangere

si siedono ad un tavolo in un angolo
parlano seriamente e all’improvviso

si mette a piangere mentre lui prende
tra le sue la mano e parla fitto

lei cerca di sorridere ma quando
lui la lascia di nuovo ripiange

chiede subito un brandy e lo ingolla
e si mette a rifarsi la faccia

poi si avvia verso casa sì lo credo
che lei l’abbia capito che qui vengo

soltanto per guardarla ed aspettare
quel giorno quando lui più non verrà.

(Rome: in the Café - Traduzione di Luciano Luisi)

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LA FRASE DEL GIORNO
Amore assoluto / lo definirono gli Scolastici /(caritas perfecta) e Pascal // riusciva bene sull'argomento ma / per me è strettamente personale // e concreto, ha a che fare con te e / il tuo modo di essere con me che è // la sua interezza ed è così / assoluto come nulla può essere.
JAMES LAUGHLIN




James Laughlin (Pittsburgh, Pennsylvania, 30 ottobre 1914 – Norfolk, Connecticut, 12 novembre 1997), poeta, saggista e editore statunitense. Legato al modernismo, elaborò una tecnica personale ed eterodossa, fatta di violenti contrasti tra slancio lirico e ironia, tra un raffinato uso della memoria e profanazioni linguistiche del quotidiano.


mercoledì 29 ottobre 2014

Per conoscere i suoi sogni

 

JOSÉ LUPIÁÑEZ

MINIATURA DI UN BACIO A CANDOLIM

Al risveglio bacio
le labbra della mia amata,
che sanno di mango e timore.
E mi tranquillizzo.
Ha la pelle dolce
come un’alba
e porta ai suoi piedi
cavigliere d’argento
che tintinnano nel mio letto
e le mie sorelle invidiano.
Nella notte piena
di cristalli brillanti
come quelli della sua gonna
del Rajasthan,
la bacio con dolcezza
sulle labbra
e le accarezzo la fronte
con le dita
per conoscere i suoi sogni.

(da La verde senda, 1999)

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È una pagina di poesia indiana questa del poeta spagnolo José Lupiáñez: rievoca certi versi d’amore di Vidyapati e di Jayadeva o i dipinti dell’arte classica indiana: il suo esotismo ci porta lontano non solo nello spazio, in quella terra che versa i suoi sapori tra i templi, ma anche in un tempo mitico e indefinito che evoca i palazzi dei Rajah.

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India

IMMAGINE © SILVERRIDGESTUDIO

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LA FRASE DEL GIORNO
Chi di notte, dormendo, sogna, conosce un genere di felicità ignota nel mondo della veglia: una placida estasi e un riposo del cuore che sono come il miele sulla lingua.
KAREN BLIXEN, La mia Africa




José Lupiáñez Barrionuevo (La Línea de la Concepción, 1955), poeta e scrittore spagnolo. Partito da poesie dal tono elegiaco in cui la parola abbaglia non solo per l'intensità della sua bellezza, ma anche per la sua profondità, è passato a una fase più sperimentale e barocca per approdare a una maggiore purificazione verbale, con una predominanza di un certo simbolismo e un più marcato disincanto esistenziale.


martedì 28 ottobre 2014

Autunno dalle mani d’oro

 

JOSÉ HIERRO

AUTUNNO

Autunno dalle mani d'oro.
Cenere d'oro le tue mani lasciarono cadere per strada.
Torni a percorrere i vecchi paesaggi deserti.
Cinto il tuo corpo da tutti i venti di tutti i secoli.

Autunno dalle mani d'oro:
con il canto del mare che rimbomba nel tuo petto infinito,
senza spighe né spine che possano ferire il mattino,
con l'alba che bagna il suo cielo nei fiori del vino,
per dare gioia a colui che sa di vivere
sei venuto di nuovo.
Con il fumo ed il vento ed il canto e l'onda tremante,
nel tuo grande cuore acceso.

(Otoño, da Quinta del ‘42, 1952 – Traduzione di Oscar Macrì)

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La poesia dello spagnolo José Hierro è spesso una poesia sociale. Ma se, come egli stesso precisò, poesia sociale significa che all’io della poesia intimista si è sostituito il noi, ogni poesia è sociale perché il lettore altro non fa che sostituire l’io del poeta con il suo “noi”, ovvero si appropria della medesima emozione. Tutto questo preambolo per commentare invece una scena autunnale di quelle che ci troviamo davanti adesso: i viali di piante dorate che si sfogliano al vento, i cespugli rossi che sembrano in fiamme, la dolce malinconia di questa stagione.

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FOTOGRAFIA © SONJA EHLEN/500PX

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LA FRASE DEL GIORNO
L’autunno è quel che resta d’una foglia.
DIEGO VALERI, Poesie




José Hierro del Real (Madrid, 3 aprile 1922 – 21 dicembre 2002), poeta spagnolo della generazione detta “sradicata” influenzato dalla poesia di Gerardo Diego. Incarcerato per quattro anni dopo la guerra civile, divenne araldo della “poesia testimoniale”, passando nel tempo a temi esistenziali.


lunedì 27 ottobre 2014

Centenario di Dylan Thomas

 

Il poeta gallese Dylan Thomas visse solo 39 anni: nato il 27 ottobre 1914 ad Uplands, presso Swansea, fu stroncato da problemi respiratori aggravati dall’alcolismo cronico nel novembre 1953 all’ospedale Saint Vincent di New York. Eppure, lasciò un grande segno di sé su questa terra tanto che Bob Dylan scelse in suo onore il nome d’arte e Tiziano Sclavi battezzò per lui il suo eroe dei fumetti Dylan Dog. Forse perché lui, il poeta, non è catalogabile nei movimenti letterari del Novecento: surrealismo, simbolismo, neoromanticismo, modernismo risultano variegati nel suo corpus poetico senza però risaltare in quel suo modo di scrivere oscuro in cui morte, natura e amore si mescolano in un gioco di analogie e associazioni talora labirintiche e apertamente visionarie che Italo Calvino definì  “la distruzione della distinzione tra l'uomo e il coacervo della materia vivente”, il passo immediatamente precedente alla pittura informale.

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dylan-thomas

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OH, FATEMI UNA MASCHERA

Oh, fatemi una maschera e un muro per nascondere alle spie
Dei vostri occhi aguzzi e laccati e degli artigli occhialuti
Lo stupro e la rivolta degli asili infantili del mio volto,
Mordacchia d’albero ammutito per bloccare contro i nemici scoperti
La lingua baionetta in questo indifeso pezzo da preghiera
(Questa bocca) e la tromba delle bugie soavemente sonata,
Espressione di tonto scolpita in quercia e in antica armatura
Per proteggere il cervello corrusco e smussare gli ispettori,
E un vedovile dolore unto di lacrime languente dal ciglio
Per velare la belladonna e lasciare che gli occhi asciutti
Scorgano gli altri tradire le lagnose bugie delle loro sconfitte
Con la curva della bocca nuda e il sorriso sopra i baffi.

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QUESTO PANE CHE SPEZZO

Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
questo vino su un albero straniero
nei suoi frutti era immerso;
l'uomo di giorno o il vento nella notte
piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell'uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell'estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
un tempo, in questo pane,
il frumento era allegro in mezzo al vento;
l'uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
da radice e linfa sensuali.
È il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.

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CI FU UN TEMPO

Ci fu un tempo che i funamboli con i loro violini
Nei circhi dei bambini potevano frenarne i turbamenti?
Ci fu un tempo che potevano piangere sui libri,
Ma il tempo ha posto il verme sul loro sentiero.
Sotto l’arco del cielo essi non sono al sicuro.
Ciò che rimane ignoto in questa vita è più sicuro.
Sotto i segni del cielo chi è privo di braccia
Ha le mani più nette, e, come il fantasma senza cuore
È il solo illeso, il cieco vede meglio.

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I link  ai testi originali delle tre poesie:
- O make me a mask
- This bread I break
- Was there a time

Altre poesie di Sylan Thomas sul Canto delle Sirene:

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LA FRASE DEL GIORNO
Tutto ciò che è nascosto dovrebbe essere messo a nudo. Essere spogliati dall'oscurità significa essere puliti, spogliare dall'oscurità è rendere puliti.
DYLAN THOMAS, Lettere




Dylan Marlais Thomas (Swansea, 27 ottobre 1914 – New York, 9 novembre 1953), poeta gallese. Surrealismo, simbolismo, neoromanticismo, modernismo risultano variegati nel suo corpus poetico senza però risaltare in quel suo modo di scrivere oscuro in cui morte, natura e amore si mescolano in un gioco di analogie e associazioni talora labirintiche e apertamente visionarie.


domenica 26 ottobre 2014

I barbari

 

KONSTANTINOS KAVAFIS

ASPETTANDO I BARBARI

- Che aspettiamo tutti riuniti qui, nell’agorà?

      Devono arrivare i barbari oggi.


- Perché tanta inerzia nel Senato?
  Quando si decidono i Senatori a legiferare?

      Perché arrivano i barbari oggi.
      Che leggi vuoi che facciano i Senatori?
      Verranno i barbari a legiferare.


- Perché l’Imperatore si è alzato tanto presto,
  e sta in trono, solenne, con la corona in testa,
  alla porta maggiore della città?

       Perché arrivano i barbari oggi.
       E l’Imperatore si appresta a ricevere
       il loro capo. Anzi ha preparato
       una pergamena da offrirgli
       con titoli e molti nomi.


- Perché i nostri due consoli e i pretori sono usciti
  oggi con la toga rossa ricamata?
  perché portano bracciali pieni di ametiste
  e anelli con splendidi smeraldi luccicanti?
  perché mai prendere oggi preziosi scettri
  finemente cesellati d’oro e d’argento?

       Perché arrivano i barbari oggi;
       e queste cose sui barbari fanno effetto.


- Perché i nostri bravi oratori non sono qui,
  come sempre, a tenere discorsi e a dir la loro?

      Perché arrivano i barbari oggi;
      loro si stufano di tanta eloquenza e parole.

- Perché all’improvviso sono tutti così nervosi
  e inquieti. (I volti come si sono fatti seri).
  Perché tanto in fretta si svuotano le strade e le piazze
  e tornano tutti a casa pensierosi?

      Perché si è fatta notte e i barbari non sono più venuti.
      E qualcuno è arrivato dai confini
      e ha detto che di barbari non ce ne sono più.


E ora che fine faremo senza barbari.
Dopotutto, quei barbari erano una soluzione.

1904

(Περιμένοντας τους Bαρβάρους, da Poesie d’amore e della memoria, Newton, 2006 – Traduzione di Paola Maria Minucci)

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L’inquadramento storico di questa poesia di Konstantinos Kavafis è solo un pretesto: in realtà sono versi che parlano alla nostra inquietudine, che evocano quel senso dell’attesa che ritroviamo nel Deserto dei Tartari o in certi racconti di Dino Buzzati. I barbari invocati sono i nostri sogni, i nostri desideri, la realizzazione della nostra vita, una soluzione alla monotonia di giorni sempre uguali, al tempo che scorre inesorabile - incarnano insomma le speranze nel futuro.

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romesenate1

CESARE MACCARI, “CICERONE DENUNCIA CATILINA”

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LA FRASE DEL GIORNO
E pensa a come la Saggezza l’aveva deriso, / e a come si era sempre fidato - che pazzia! - di lei, / bugiarda, che gli diceva: «Domani. Hai tanto tempo».
KONSTANTINOS KAVAFIS




Konstantinos Petrou Kavafis, (Alessandria d'Egitto, 29 aprile 1863 – 29 aprile 1933), poeta e giornalista greco. Pubblicò 154 poesie, spesso ispirate all'antichità ellenistica, romana e bizantina, percorre, mirando al sublime, i vari gradi di un'esperienza estetica congiunta alla pratica dell'amore omosessuale.


sabato 25 ottobre 2014

L’oceano è pazzo di schiuma

 

SEAMUS HEANEY

POSCRITTO

E qualche volta trovate il tempo di andare in auto ad ovest
in County Clare, lungo la Flaggy Shore,
a settembre o ottobre, quando il vento
e la luce si azzuffano così che da una parte
l’oceano è pazzo di schiuma
e bagliori, e all’interno fra le pietre
la superficie di un lago color ardesia è illuminata
dal lampo terrestre di uno stormo di cigni,
le piume scompigliate e soffiate, bianco su bianco,
le teste adulte dall’aria ostinata
sommerse o affioranti o indaffarate sottacqua.
Inutile pensare di posteggiare e cogliere la scena
più completamente. Non sei né qua né là,
una fretta per cui passano cose note e ignote
mentre forti morbide folate prendono l’auto di sbieco
e sorprendono il cuore sovrappensiero e lo aprono d’un soffio.

(da The Spirit Level, 1996 - Traduzione di Massimo Bacigalupo)

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La poesia del Premio Nobel irlandese Seamus Heaney è saldamente ancorata alla terra del suo paese. È una poesia che sa di torba, di brughiere, di ampie spiagge sull’oceano spazzate dal vento, come la Flaggy Shore di questi versi: Heaney esprime l’emozione di quella vista, l’indicibile sensazione di trovarsi perso tra terra e cielo, tra luce e vento.

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Flaggy

FLAGGY SHORE - FOTOGRAFIA © T.T. FAUGHAN

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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia può creare un ordine fedele all’impatto della realtà esterna e rispondente alle leggi interne del poeta.
SEAMUS HEANEY




Séamus Heaney (Castledawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013), poeta irlandese, massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese. Ottenne il Premio Nobel per la letteratura nel 1995 “per gli impianti di bellezza lirica e di profondità etica, che esaltano i miracoli giornalieri e la vita passata”.


venerdì 24 ottobre 2014

Biondo brivido

 

GHIORGOS STOIANNÌDIS

SENZA MIRARSI

Senza mirarsi nella luna,
senza riconoscersi nell’ora,
sulla riva alzando la sua voce,
abbandona gli inesauribili uccelli.

Bianca come mollica di gelsomino
fresca fluttua nell’amore.

Semplice risveglia i flauti
come una festa
senza che nessun raggio macchi il suo cuore,
ritardi il suo sonno.

Dischiude il momento più diafano,
biondo brivido della diafana acqua,
passero del mattino che solleva
la litania delle campane nella luce.

(Traduzione di Cristino Sangiglio)

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È la descrizione di un’alba, del risveglio del giorno: ma il poeta greco Ghiorgos Stoiannìdis trasfigura con pennellate idilliache la Natura in una eterea ragazza - sembra quasi di vederla, con i suoi veli leggeri e i lunghi capelli al vento, avanzare come la Primavera del Botticelli o come una donna da dipinto preraffaelita in questa poesia dove protagonista è la luce con tutti i suoi riflessi.

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Draper

HERBERT JAMES DRAPER, “THE GATES OF DAWN”, PARTICOLARE

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LA FRASE DEL GIORNO
Attraverso il fitto fogliame occhieggiò una debole, pallida luce, più misteriosa ancora del chiarore lunare. Entrò attraverso le innumerevoli porte e finestre del bosco, timida e silente, ma fiduciosa. La sua bianca veste si rigò d'oro e porpora; il suo nome era: alba.
GILBERT KEITH CHESTERTON, L’osteria volante




Ghiorgos Stoiannìdis (Xanthi, 1912 - Salonicco, 1994), poeta greco. Partita dall'area del simbolismo e della scrittura associativa astratta, la sua poesia mantiene immutata l'intensità delle emozioni e il predominio dell'elemento erotico, associati ad una poetica “pura” del linguaggio e alla sua rigorosa organizzazione.

giovedì 23 ottobre 2014

Sera d’autunno sul lago

 

JAN WAGNER

CANTO SERALE, LAGO DI COMO

Autunno, quando le castagne depongono le armi,
mazze ferrate disseminate sul suolo tutt’intorno,
nei rami le sorbe
              si gloriano del loro

veleno. Ora tutti gli ami poggiano
sul fondo e le barche nei capannoni.
Mentre le foglie si trasformano in fumo,
              si riposano le ville

dallo sfarzo e un orlo di lampioni
separa la passeggiata dal lago.
Il traghetto vuoto d’auto trasporta sull’acqua
              un ultimo carico di luce.

(da Australia, 2010 - Traduzione di Gio Batta Bucciol)

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Jan Wagner, poeta tedesco, è un cantore degli oggetti: risulta chiaro anche qui, nella descrizione di una sera autunnale sul Lago di Como, dove sono gli incastri di cose e le loro analogie a costruire la poesia, a dire le impressioni del poeta nel riverbero delle luci sull’acqua.

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Lago

FOTOGRAFIA © PINTEREST

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LA FRASE DEL GIORNO
Lezione dell'autunno: / barbicarsi alla terra / o staccarsi da tutto?
EDUARDO MITRE, Versi d’autunno




Jan Wagner (Amburgo, 18 ottobre 1971) è un poeta tedesco. Dalla pubblicazione del suo primo volume di poesie nel 2001, ha lavorato come scrittore, editore e traduttore freelance dall'inglese e dall'americano. Poesie sono state pubblicate in numerose antologie e riviste letterarie. Come critico scrive recensioni per la Frankfurter Rundschau


mercoledì 22 ottobre 2014

Attimo

 

WISŁAWA SZYMBORSKA

IN EFFETTI, OGNI POESIA

In effetti ogni poesia
potrebbe intitolarsi «Attimo».

Basta una frase
al presente,
al passato o perfino al futuro:

basta che qualsiasi cosa
portata dalle parole
stormisca, risplenda,
voli nell’aria, guizzi nell’acqua,
o anche conservi
un’apparente immutabilità,
ma con una mutevole ombra;

basta che si parli
di qualcuno
o di qualcuno accanto a qualcosa,

di Pierino che ha il gatto
o che non ce l’ha più;

o di altri Pierini
di gatti e non gatti
di altri sillabari

sfogliati dal vento;
basta che a portata di sguardo
l’autore metta montagne provvisorie
e valli caduche;

che in tal caso
accenni al cielo
solo in apparenza eterno e stabile;

che appaia sotto la mano che scrive
almeno un’unica cosa
chiamata cosa altrui;

che nero su bianco,
o almeno per supposizione
per una ragione importante o futile,
vengano messi punti interrogativi,
e in risposta -
i due punti:

(da Due punti, 2005 - Traduzione di Piero Marchesani)

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La poetessa polacca Premio Nobel Wisława Szymborska scrive “in effetti ogni poesia potrebbe intitolarsi «Attimo»” ovvero la rappresentazione di quell’emozione colta al volo, di quel momento strappato alle grinfie del tempo, di quell’immagine presa per sempre nella retina. Ogni poesia è l’attimo fuggente che tenta la via dell’eternità, il seme portato dal vento che forse attecchirà lontano, l’intuizione di un secondo che prova a illuminare una porzione più vasta di mondo.

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goccia

FOTOGRAFIA © WALLSAVE

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LA FRASE DEL GIORNO
Nella prosa può esserci tutto, anche poesia, / ma nella poesia deve esserci solo poesia.
WISŁAWA SZYMBORSKA, Gente sul ponte




Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012), poetessa e saggista polacca, insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1996 “per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d'umana realtà”.


martedì 21 ottobre 2014

Che i treni diventino pazzi

 

CARLOS VILLALOBOS

CHE TORNINO I TRENI

Che i treni diventino pazzi
e ci portino agli angoli dove la sorpresa
di un volto è un’allegria che non era in agenda,
che i treni, pazzi da legare, navighino come gondole
sulla riva dei parchi
dove i baci diventano eroi
e scendono da un solo strapiombo le stelle.

Che i treni scardinati
fingano delirando appuntamenti al buio con gli uccelli
e se ne vadano laggiù mischiando storie
e nonni
e ancora una volta raccolgano la venditrice di mango
che una sera a Orotina
mi offrì un sorriso così imprevisto
che non potrò ripagare, perché non so quanto affetto vale.

Che i treni che portarono mio nonno al porto
tornino qui
pensando d’essere i cani di casa,
non importa, che giungano muovendo la coda,
ma che giungano pazzi di gioia
e ancora ci portino alle pianure dove faceva
un sole del diavolo
e i ragazzi e le ragazze
escano correndo dalle case un’altra volta
e tornino a colmare di addii le finestre.

Che i treni tornino qui
non importa se giungono in un pacchetto
per posta,
se arrivano a cavallo
vantando una collezione di tatuaggi nei vagoni,
non è per caso, l’importante è che arrivino
e ci portino a scivolare tra i puledri,
a continuare il volto delle formiche.

(da AA.VV. - Ad ora incerta – traduzioni di Tomaso Pieragnolo - www.ebook-larecherche.it)

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La vita è un viaggio, è una metafora che torna sovente: Fernando Pessoa considerava che “la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”. Il poeta costaricano Carlos Villalobos la trasforma in treni: quelli del futuro, quelli del carpe diem, quelli del passato e della memoria. Treni perduti, treni desiderati, treni attesi e invocati…

NOTA: Segnalo la possibilità di scaricare gratuitamente presso il sito dell’editore l’e-book con la raccolta di poeti centroamericani - da cui è tratta questa poesia di Carlos Villalobos - tradotti da Tomaso Pieragnolo.

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Cardiff Docks

LIONEL WALDEN, “CARDIFF DOCKS”

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LA FRASE DEL GIORNO
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
FERNANDO PESSOA, Il libro dell’inquietudine




Carlos Manuel Villalobos (Costarica, 1968, poeta, scrittore e filologo costaricano. Tra le sue pubblicazioni letterarie spiccano Altari di cenere, Il canto degli uffici, Il rito dei leggii, Insettitudini e Tribolazioni. Ha un dottorato in Letteratura Centroamericana e lavora come professore presso l'Università della Costarica, dove insegna Semiotica e Teoria della Letteratura.


lunedì 20 ottobre 2014

Centenario di Mario Luzi


Ricorre oggi il centenario della nascita di una delle massime figure poetiche del Novecento: Mario Luzi nacque infatti a Firenze il 20 ottobre 1914. “Mario, voi somigliate a Firenze” riporta un testo di Yves Bonnefoy nel numero che Poesia dedica al poeta. Ecco, leggendo i versi di Luzi – via via più prosastici con il susseguirsi delle raccolte - si viene portati non solo a Firenze, ma in quella terra toscana con paesaggi sferzati dal vento, ci si inoltra in quel mondo che parla allo spirito del poeta, alla sua inquietudine nel tentativo di trovare un equilibrio tra essere e divenire in una perenne tensione della parola: “Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi / sogno che la cosa esclami / nel buio della mente / però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo sii / luce, non disabitata trasparenza... / La cosa e la sua anima? / O la mia e la sua sofferenza? / Vola alta, parola”.

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Luzi
MARIO LUZI NELLA CASA FIORENTINA DI VIA BELLARIVA – DAL WEB
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da Avvento notturno, 1940


(SE MUSICA È LA DONNA AMATA)


Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l'oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov'io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s'appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia
e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d'inattuate rose di lontano.

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da Dal fondo delle campagne, 1965


DALLA TORRE


Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi
nella sua cavalcata verso il mare,
nella sua ressa d’armento sotto i gioghi
e i contrafforti dell’interno, vista
nel capogiro degli spalti, fila
luce, fila anni luce misteriosi,
fila un solo destino in molte guise,
dice: “guardami sono la tua stella”
e in quell’attimo punge più profonda
il cuore la spina della vita.
Questa terra toscana brulla e tersa
ove corre il pensiero di chi resta
o cresciuto da lei se ne allontana.

Tutti i miei più che quarant’anni sciamano
fuori del loro nido d’ape. Cercano
qui più che altrove il loro cibo, chiedono
di noi, di voi murati nella crosta
di questo corpo luminoso. E seguita,
seguita a pullulare morte e vita
tenera e ostile, chiara e inconoscibile.

Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta.
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da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994


È, L’ESSERE. È


È, l’essere. È.
Intero,
inconsumato,
pari a sé.
             Come è
diviene.
             Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
             diviene
se stesso
altro da sé.
             Come è
appare.
       Niente
di ciò che è nascosto
lo nasconde.
             Nessuna
cattività di simbolo
lo tiene
         o altra guaina lo presidia.
                        O vampa!
Tutto senza ombra flagra.
È essenza, avvento, apparenza,
tutto trasparentissima sostanza.
È forse il paradiso
questo? oppure, luminosa insidia,
un nostro oscuro
ab origine, mai vinto sorriso?

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Altre poesie di Mario Luzi pubblicate sul Canto delle Sirene:
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LA FRASE DEL GIORNO
Questa felicità promessa o data / m'è dolore, dolore senza causa /o la causa se esiste è questo brivido / che sommuove il molteplice nell'unico /come il liquido scosso nella sfera / di vetro che interpreta il fachiro.
MARIO LUZI, Onore del vero



Mario Luzi (Castello di Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005), poeta italiano, fu uno dei grandi rappresentanti dell’Ermetismo. Più volte candidato al Nobel, fu insignito della Legion d’Onore. Fu Accademico della Crusca e senatore a vita.


domenica 19 ottobre 2014

Se è vero che i sogni

 

JOSÉ MANUEL CABALLERO BONALD

PRINCIPIO DEDUTTIVO

Se è vero che i sogni
sono risposte a tutte le domande
che ci siamo posti
prima di nascere,
la poesia
sarebbe come la replica
alla domanda
che è rimasta ancora senza risposta.

(da Manual de infractores, 2005)

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“I dubbi sono le cose che meglio servono per aprirti la strada nei labirinti dell’esperienza. Io non saprei scrivere, né tantomeno vivere, se fossi sicuro di tutto”: José Manuel Caballero Bonald, poeta spagnolo figlio di un esule cubano, ritiene che il tentativo di dare una risposta non certa ma plausibile a quei dubbi sia la poesia, una forma di contatto tra noi e il mistero dell’esistenza.

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Dreaming

MARIE, “DREAMING”

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LA FRASE DEL GIORNO
Creo una poesia con le parole e la verità è quella che si viene creando per mezzo di ciò che scrivo. Questa è la verità della poesia.
JOSÉ MANUEL CABALLERO BONALD




José Manuel Caballero Bonald (Jerez de la Frontera, 11 novembre 1926), poeta e scrittore spagnolo. Di famiglia cubana, studiò Astronomia e poi Lettere e Filosofia. Militante antifranchista, appartenne a l gruppo poetico dei ‘50. Nel 2012 vinse il Premio Cervantes. È noto per il suo stile barocco e ampolloso.


sabato 18 ottobre 2014

La regina bianca

 

ULALUME GONZÁLEZ DE LEÓN

RACCONTARE UNA FAVOLA

È il paese di Andrai e Non Ritornerai
dove gli orologi segnano l’inverno in punto
e solo nella tua memoria sarà primavera
se avrai tempo di ricordare
Ma hai soltanto il tempo di cercare la regina bianca

Qui si congela il cuore e non può rompersi
Qui si congelano le fonti del pianto
Qui si congelano le parole che designano i colori
e solo sopravvive la parola del suo nome
Ma tu non sai come si chiama la regina bianca

Si sa poco della regina bianca:
che abita un silenzio senza finestre
che abita il castello di Escisepuoi
che abita la casa del freddo

Si sa poco della regina:
che è completamente bianca
che neppure pensando tutte le rose insieme
si potrebbe far nascere un rossore sulle sue guance
e che neppure con tutte le ali di tutti gli uccelli
si potrebbe migrare dal suo inverno in punto

Si sa poco di lei
Ma non c’è più bisogno di cercarla
né serve altro per incontrarla
e allontanarti da lei per sempre
se scopri che non lasci impronte sulla neve
se scopri come perdi ogni prova della vita.

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“Ci sono cose reali che non credi perché inverosimili e cose fantastiche che ti danno la chiave per intendere la realtà” dichiarò in un’intervista del 1971 la poetessa messicana di natali uruguaiani Ulalume González de León: qui costruisce una favola in poesia, disegnando il paese bianco e deserto di un inverno perenne dove nel vuoto di colori regna una regina bianca, che forse è prigioniera del suo ruolo. Il tocco di maestro è il colpo di scena finale in cui la regina bianca si rivela per quello che è, la narratrice della favola, e tutto quel bianco è il vuoto della sua vita.

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Perish

NICOLAS HENRI, “PERISH”

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LA FRASE DEL GIORNO
Il bianco non è neanche un colore. Non è niente, come il silenzio. Un niente senza parole e senza musica. In silenzio: in bianco.
ALESSANDRO D’AVENIA, Bianca come il latte, rossa come il sangue




Ulalume Ibáñez Iglesias, nota come Ulalume González de León (Montevideo, 20 settembre 1932 – Querétaro, Messico, 17 luglio 2009), poetessa, traduttrice, saggista e editrice messicana di natali uruguaiani. La sua poetica parte dall’assunto che tutto è stato detto e la poesia altro non è che un plagio: il vero soggetto è la memoria e il corpo altro non è che cellula della memoria.


venerdì 17 ottobre 2014

L’amore è carne e sangue

 

MARINA CVETAEVA

POEMA DELLA FINE, 5

Colgo il movimento delle labbra.
E so - non parlerà per primo.
«Non mi amate?» - «No, ti amo.» -
«Non amate!» - «Ma mi tormento,

ma sono ubriaco, sono distrutto.
(Scrutando come un’aquila il posto):
Scusate, ma questa è una casa?» -
«La casa è nel mio cuore.» - «Letteratura!

L’amore è carne e sangue.
Fiore innaffiato del proprio sangue.
Voi credete che l’amore sia
discorrere davanti a un tavolino?

Un’oretta - e poi a casa?
Come quei signori e quelle dame?
L’amore, questo vuol dire...»
                                                «Un tempio?
Bambina, sostituite con una cicatrice
la cicatrice!» - «Sotto lo sguardo dei servi
e degli ubriaconi? (Io, senza suono:
L’amore vuol dire: un arco
teso: l’arco: la separazione).

L’amore vuol dire - legame.
Per noi tutto è separato: le bocche e le vite.»
(Te l’avevo pur chiesto: non dare il malocchio!
In quell’ora, segreta, vicina,

in quell’ora sulla cima della montagna
e della passione. Il memento è uno svaporare:
l’amore vuol dire tutti i doni
nel rogo - e sempre per nulla!)

La cavità a conchiglia della bocca
è pallida. Non sogghigno - inventario.
«E prima di tutto un solo
letto.»
            «Un solo abisso, volevate

dire?» - Tamburo battente
delle dita. - «Non smuovere montagne!
L’amore vuol dire...» -
                                     «Mio.
Vi capisco. Deduzione?»

Il tamburo battente delle dita
cresce (Patibolo e piazza.)
«Partiremo». - «E io: moriremo,
speravo. È più semplice!

Basta con i bassi prezzi,
rime, rotaie, alberghi, stazioni...»
«L’amore vuol dire: vita.»
«No, in altro modo era chiamato

dagli antichi...» -
                             «E così?
                                              (Un brandello
di fazzoletto nel pugno, come un pesce).
Così, partiremo?» - «Il vostro itinerario?
Veleno, rotaie, piombo - a scelta!

La morte - e nessuna installazione!»
- «La vita!» - Come un condottiero romano,
scrutando aquilino delle truppe
i resti.
             - «Allora ci diremo addio.»

(da Poema della fine, 1926 - Traduzione di Pietro a Zveteremich)

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Il Poema della fine di Marina Cvetaeva è la cronaca di un addio, della separazione dall’amante K. B. Rodzević, come lei e come il marito Sergej Efron, esule a Praga. Questa strofa con i pensieri reconditi e certi dettagli - le dita che tamburellano, il fazzoletto stretto nel pugno - messi in risalto come in un primo piano cinematografico, si trasforma in una scena teatrale, una passeggiata per la città tra i banchi dei commercianti e i ponti sulla Moldava con una disquisizione sull’essenza dell’amore, sul significato di quella storia ormai avviata alla conclusione. «È il dolore femminile ormai esploso» conferma la Cvetaeva in una lettera del 1926, «le lacrime che erompono».

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FOTOGRAFIA © CARTIER-BRESSON

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LA FRASE DEL GIORNO
L’ultra-assurda parola: / separarsi - Una delle cento? / Semplicemente una parola di quattro sillabe, / dietro le quali c’è - il vuoto.
MARINA CVETAEVA, Poema della fine




Marina Ivanovna Cvetaeva (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941), poetessa e scrittrice russa. Divenuta una delle migliori voci del simbolismo russo, fu invisa al regime stalinista. Esule a Berlino e Parigi, tornò in patria nel 1939 alla ricerca del marito, fucilato dall NKVD e della figlia, in campo di lavoro. Disperata e isolata, si uccise nel 1941.


giovedì 16 ottobre 2014

Perché in essa io abito

 

FRANCISCO BRINES

PALAZZO D’AUTUNNO
(Frammento)

Parlare di questa città, nella quale alloggio
il mio spirito e il mio corpo,
sarebbe come parlare di solitudine e povertà.
E c’è un sibilare di vento che si alza,
senza luce, ondate di luce (la vita simulata
delle foglie).
Nel riposo della terra
giace, bagnata dalla pioggia,
la bellezza del mondo.

Nella città vecchia, palazzo d’autunno,
risiedono i generosi sogni d’amore,
e l’entusiasmo dello spirito;
da secoli albergano la loro fiamma
nel corpo dei giovani.
Ardono i loro cuori tra le mura;
fuori, la notte circonda silenziosa
la musica del sogno.
Parlo di questa città, e sto parlando
di solitudine e di povertà.
Perché in essa io abito.

(da Palabras a la oscuridad, 1966)

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L’autunno è una stagione che con la sua malinconia si addice alla scrittura intimista di un poeta attento allo scorrere del tempo come lo spagnolo Francisco Brines. Qui la tristezza autunnale inglese – Brines insegnava letteratura spagnola ad Oxford - si trasforma in una bellezza inarrivabile perché destinata ad altri. Il poeta assume ancora una volta il ruolo di osservatore, ma questa volta si trova all’interno e l’astrazione non è contemplata.

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Oxford

OXFORD DI SERA – FOTOGRAFIA © MAY CHAN

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LA FRASE DEL GIORNO
Se non c’è conoscenza nella cenere, / lasciamola cadere nella bellezza fragile / della rosa che trema in autunno.
FRANCISCO BRINES, Parole all'oscurità




Francisco Brines Bañó (Oliva, 22 gennaio 1932),​ poeta spagnolo. Inquadrato nel gruppo della Generazione dei ‘50, se ne distaccava per la sua poesia elegiaca attenta alla bellezza, al malinconico scorrere del tempo e alla caducità del vivere. Ê stato insignito del Premio Cervantes per il 2020.


mercoledì 15 ottobre 2014

Centenario di Piero Bigongiari

 

Ricorre oggi il centenario di Piero Bigongiari, poeta e saggista toscano che nacque a Navacchio, nel Pisano, il 15 ottobre 1914 e morì nel 1997. Insegnante all'Accademia di Belle Arti di Firenze, collaboratore di “Letteratura” e “Campo di Marte”, studioso di Leopardi, fu poeticamente esponente di un postermetismo austero e raffinato che lascia però trasparire impeti sensuali, passando da una tendenza metafisica (Non ha il cielo un segreto che ti culmini, / le tue risa s'iridano al vetro  / della sera dolcissima di fulmini) a un simbolismo capace di trasfigurare la realtà (L'onda che si accavalla  / trova in se stessa sponda all'infinito).

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ASPETTANDO E. CHE TORNA DA ROMA

La tramontana accende nei camini
più vivida la fiamma: so, lontana,
che le tue ciglia bevono dal cielo
oblique più neri i suoi propositi.
So che guardi, né la tempesta schiara
i tuoi occhi, come un paesaggio andare
il tempo che da me qui ti separa.

Riconosco le rare, le lontane
pendici arroccate, un torreggiare,
all’orizzonte nuvole infocate
sui tufi della Valle Tiberina,
Orvieto, Arezzo, l’Arno che fa un’ansa
verde improvvisa, so che il tempo veste
- scompare e appare tra esili pioppete -
questa o altra divisa; ma tu scendere
non puoi da questo treno, né io salire
posso su un altro, anima mia indivisa
che torni come nel suo vaso il mosto
a fermentare.
                       Porta verso un alt
come scarica il carbonaio qui sotto
nel suo antro d’interi boschi il nero
smemorato deposito del fuoco.
Né questa tramontana urta per giuoco
su bacche intirizzite dall’autunno,
su arrossate pendici, a trarvi, è d’uopo
fin il rossore e l’allegria dell’atto.

Infilati gli stivali di gomma
il pescatore tenta la fanghiglia
dove il sole è vivace,
innesta ecco la canna, mette l’esca,
guarda sulla spalletta la marmaglia
che l’insulta, bestemmia, attende in pace.

(da Le mura di Pistoia, Mondadori, 1958)

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AMORE

C'è poco spazio per l'amore, tra una
chiamata telefonica, un viaggio,
un grido, a malapena un esser qui
tra un sorriso, un morire del sorriso,
ma questo è amore, questo poco spazio
che viene meno: screzio del possibile,
strazio dell'impossibile che può.

Se è intatta la coppa, l'incrinata
coppa ma che non versa, è che l'amore
che l'incrina la tiene, che la sbriciola
la rifonde in un tutto. Nulla passa:
la ferita non versa, par guarita.
Ma non l'amore, esso non è guaribile.

Non guarisce l'amore, l'inguaribile
scende stilla a stilla dagli occhi, e uno dice: vedo;
stilla a stilla dal cuore, e uno dice: sento,
sento un vuoto, un dolore, sento venir meno
la notte o l'alba che dovrebbero seguirsi
a breve distanza, caute, tacendo.

È notte o l'alba, non so: il fiume qui è grosso
ma pur fine, fatto di stille di temporali miti.
Gridano di andarsene dal cuore le poche cose che lo
posseggono
ma come una stiva che una tempesta mette a soqquadro,
quanto spazio là, quanto spazio tra le cose mercanteggiate,
in qualche pericolo
qualcuno grida lassù in alto con un urlo lacerante qualcosa.

Ha veduto, o non ha veduto, il pack aprirsi
a un' improvvisa primavera che ha percorso le acque
fredde
in canali profondi; ha veduto, o non ha veduto,
anche il carico aprirsi, sbandare, ritrovare quel disordine
antico che all'improvviso provoca non udito,

ultrasuono infrasuono, non una voce per chi è sordo a ogni ordine estremo
o forse all'opposto di ogni ordine. Se tutto, dentro e fuori,
ugualmente e tutto insieme si apre, attento
attento a non cadere in questa grafia fine che l'amore crea
tra le cose
come se volesse descriverle, lui l'indescrivibile,
attento a non scinderti in un significato che non può
significare l'insignificabile
perché l'amore può stritolarti là in mezzo dove ti lascia
dolcemente cadere
se tu non ne sei la tenaglia ma il mallo amaro.

(da Antimateria, Mondadori 1972)

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VETRATA

O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l’età più grande come un’alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muove sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l’attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente.

(da Autoritratto poetico, Sansoni, 1985)

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LA FRASE DEL GIORNO
Ma lo sguardo è dentro le cose / a cercarvi la buccia tra la polpa, / e non v’è colpa sufficiente per la nostra gioia, / nemmeno la speranza e la solitudine: / tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.
PIERO BIGONGIARI, Autoritratto poetico




Piero Bigongiari (Navacchio, 15 ottobre 1914 – Firenze, 7 ottobre 1997), poeta e critico letterario italiano. Insegnò storia della letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Firenze. È considerato esponente di un ermetismo purista in cui dominano metafisicamente il tema dell’assenza, un forte anelito religioso e la trasfigurazione simbolica della realtà.

martedì 14 ottobre 2014

Un’ombra cancellata

 

PEDRO GANDÍA

PERMANENZA DELL’ILLUSIONE

Il suo essere è già memoria senza poter progredire.
Uno spazio vuoto di silenzio
che ritrae ogni segno e idea che lo esprime.
E tutto diverge quando tenti di nominarlo.

Se dura ridotto a linea di cenere
scritta o riflessa in uno specchio rotto,
si alza un vento che nega il suo senso.
E da lì nasce il dubbio di un’ombra cancellata.

(da Acrópolis" 1984-1995, 2011)

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L’illusione è un sogno che non ha speranza: non ha un futuro davanti a sé e quindi altro non è che un vuoto, un fantasma che prima o poi svanirà. Il poeta spagnolo Pedro Gandía dipinge a parole un quadro che ricorda la celebre “Persistenza della memoria” di Dalí. E alla fine, caduti i suoi veli, non rimane nulla.

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Gonsalves

ROB GONSALVES, “WIDOW’S WALK”

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LA FRASE DEL GIORNO
Tutto il segreto della vita sta nel votarsi alle illusioni senza sapere che sono tali. Non appena le si conosce per quello che sono, l'incanto è rotto..
EMIL CIORAN, Quaderni 1957-1972




Pedro Gandía (Minglanilla, 4 agosto 1953),  pittore, scultore, fotografo, videoartista e scrittore spagnolo. Attratto dal Museo di Arte Astratta di Cuenca, decise di dedicarsi a studi artistici. I soggiorni parigini, tra il 1974 e il 1976, segnarono la sua formazione letteraria, così come i soggiorni a Roma, Firenze e Londra.



lunedì 13 ottobre 2014

Il ruolo di Cristiano

 

IZET SARAJLIĆ

LA CRISI DELLA POESIA D’AMORE

Avendo paura
di essere definiti fuori moda
i giovani non scrivono più
poesie d’amore.
Noi vecchi
dovremo
scriverle
per loro.
Non sarà la prima volta
che il ruolo di Cristiano
viene affidato a Cirano.

1987 – 1989

(Traduzione di Sinan Gudžević e Raffaella Marzano)

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“Mi dispiace vedere che la poesia ha perso il posto che una volta occupava nella vita delle persone. I poeti sono in parte responsabili di questo, ma lo spirito del tempo è altrettanto da biasimare”: così rispondeva all’UNESCO Courier nel 1998 il poeta e filosofo bosniaco Izet Sarajlić. E se la poesia non è più lo strumento principale per esprimere le proprie emozioni, allora l’aridità si impossessa di quelle vite: saranno i cultori della poesia, come sacerdoti di un antico rito a tramandarne la bellezza, a surrogare chi non è più in grado di crearla. Ancora una volta Cristiano dovrà chiedere a Cirano di scrivergli la sua poesia d’amore per Rossana.

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FOTOGRAFIA © DESKTOP AS

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LA FRASE DEL GIORNO
I critici di poesia sono come i vecchi. / Anche se sanno tutto dell’amore / Non possono fare l’amore.
IZET SARAILIĆ, Neko je zvonio




Izet Sarajlić (Doboj, 16 marzo 1930 – Sarajevo, 2 maggio 2002), storico, filosofo e poeta bosniaco. Fondatore nel 1954 del "Gruppo 54", movimento d'innovazione poetica, fu uno fra gli organizzatori delle "Giornate poetiche di Sarajevo" nel decennio successivo. Rimasto a Sarajevo durante l'assedio, tenne un diario di guerra, pubblicato nel 1993.


domenica 12 ottobre 2014

Nella grande pianura

 

UMBERTO BELLINTANI

IO CARA MI ESPANDO NELLA GRANDE PIANURA

Io cara mi espando nella grande pianura
ed estasiato l'ammiro, e questo vento…
che qui mi batte sopra il petto è tutto il vento
che quelle rupi d'alti monti ha valicato col suo fragore.
Popoli e popoli di mucche raduno e spingo a un mare
che lungi alto biancheggia, più lontano
dell'aldilà dell'aldilà da dove gira
per il ritorno splendente la cometa.
Oh ma questa vita ha bisogno di spazi ampi come l'universo,
e di tremende notti, e di burrasche dove
il grandioso mare s'esprima per tornare
indi in bonaccia per dirci come immenso
è il suo respiro.
E l'usignolo, mia vita, l'usignolo?
Là nella notte canta quando al bosco
è fragoroso il silenzio e più non c'è
chi veglia nei borghi e le città.
Canta. E il suo cantare, amore,
è firmamento stellato.
O gorgheggiare antico e nuovo della gran solitudine,
io parlo al trampoliere quando al sole sosta sulle sabbie
in punta all'isola remota, alla balena
io sempre parlo e al murmure sonoro
delle incantate foreste. Sono
io uomo del passato e del futuro,
e non v'è canto che non oda né lamento
che non mi giunga fragoroso d'armonie
in questo d'ombre notturne vagolare
ed albeggiare della luce che principia
il suo clamore…
È la mia pianura ancor più vasta e sonora d'un gran mare.
E qui ti parlo e non v'è cosa
che io non senta grandiosa e il contemplare
in quest'immenso respirare d'una lucciola
appena o d'una fronda
io confondo immortale il mio respiro.

(da Nella grande pianura, 1998)

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Le ombre della sera, il silenzio, le solitudini della campagna sono molto spesso protagoniste delle poesie di Umberto Bellintani, uomo della grande pianura, della Bassa mantovana attraversata dal Po tra pioppeti e golene. In quella vastità in cui non appare neppure un’altura a smuovere il paesaggio e dove le montagne sono tanto lontane da confondersi con le nuvole, il poeta si trova come l’officiante di una messa della natura, in una perfetta armonia dove il suo respiro e quello di una lucciola hanno la medesima valenza.

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FOTOGRAFIA © GRASSO83

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LA FRASE DEL GIORNO
Dio ha fatto la campagna e l'uomo ha fatto la città.
WILLIAM COWPER, Il compito




Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po, 10 maggio 1914 – San Benedetto Po, 7 ottobre 1999), poeta italiano. Diplomatosi in scultura, prese parte alla Seconda guerra mondiale in Grecia e Albania, finendo prigioniero dei tedeschi dal 1943 al 1945. Esordì nel 1953 con Forse un viso tra mille, cui seguì nel 1955 E tu che mi ascolti. Dopo un lungo periodo di silenzio pubblicò nel 1998 Nella grande pianura.