JOSÉ EMILIO PACHECO
“Ô TOI QUE J’EUSSE AIMÉE…”
E ora una digressione. Consideriamo
quella variante dell'amore che
non può mai essere chiamata amore.
Sono momenti isolati senza futuro
Nella città dove sarò per tre giorni
ci incontriamo.
Parliamo cento parole.
Ma uno scintillio negli occhi, un silenzio
o il tocco delle mani che si dicono addio
accendono la luce dell'immaginazione.
Senza ragione o causa, si presume
di essere arrivati in anticipo o in ritardo e ci si dispiace
(“Non esserci incontrati...")
E tu occupi inconsapevolmente la tua fedele nicchia
in un casto harem di ombre e fumo.
Intoccabile,
incorruttibile sotto il giogo dell'amore,
viva in quella che De Rougemont chiamava
possesso attraverso la perdita.
(da Andrai e non tornerai, 1973)
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“Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!” è l’ultimo verso di un famoso sonetto di Charles Baudelaire, A una passante: “Oh te che avrei amato, tu che lo sai”. Parte da lì il poeta messicano José Emilio Pacheco per elevare l’inno a quegli amori che non si realizzeranno mai, ma che resteranno come larve in un bozzolo, come ricordi adagiati in una Wunderkammer del cuore, quegli amori impossibili perché è loro impedito di nascere per varie considerazioni, perché si è arrivati nel momento non adatto, per lontananza, per altre distrazioni. Eppure, ogni tanto si ripensa a “quello sguardo che ha fatto improvvisamente rinascere”.
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FOTOGRAFIA DA PINTEREST
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LA FRASE DEL GIORNO
Allora, nelle sere di stanchezza, / riempiendo la solitudine / con i fantasmi del ricordo / si rimpiangono le labbra assenti / di tutte queste belle passanti / che non abbiamo saputo trattenere.
ANTOINE POL, Emozioni poetiche
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José Emilio Pacheco Berny (Città del Messico, 30 giugno 1939 - 26 gennaio 2014), scrittore, poeta, saggista e traduttore messicano. Fu parte integrante della Generazione dei ‘50. La sua poesia concentra l’attenzione sulla storia, sulla ciclicità del tempo, sull’universo dell’infanzia e sulla vita nel mondo moderno.

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