giovedì 6 agosto 2020

Quel giorno a Hiroshima


ALFONSO GATTO

SEI AGOSTO

Era un giorno del tempo, un mattino d’estate
e ventilava il mare aperto il suo rigoglio.
Diranno ancora “amate” i poeti di corte
e la fede che prospera più cieca dell’orgoglio?
Quel giorno a Hiroshima fu decisa la morte.
Ora, se parla l’uomo, quale voce credente
sarà la sua nel chiedere la fede che spergiura?
Quel giorno a Hiroshima il tutto s’ebbe il niente
del suo potere, l’empio fu mai così pietoso.

Perché nascondi il volto in un volto ch’è ròso
dalla sua lebbra ardente? Ogni attimo minaccia
la grazia ch’ebbe il soffio del suo fango mortale.
Quel giorno a Hiroshima si rovesciò la faccia
dell’uomo nell'atroce risguardo del suo male,
fu l’essiccata effigie dell’occhio che rintraccia
la tenebra perenne, addentro nel fulgore
d’un punto che vacilla ed è la sua pupilla.

Un ordine la mano che fissa il suo potere,
ma la voce era d’uomo che annienta le parole
per non udirle, e aspetta: rigurgita il cratere
di povere festùche umane che ogni fuoco
bastava a incenerire, il fuoco che riscalda
il gelo e la miseria degli ànditi di carta,
il tizzo del bambino che soffia sul suo gioco.
Forse i morti non seppero s’era caduto il sole.

Quell’attimo d’un solo grido taciuto anch’esso,
quell’attimo, la mira del fulmine che scarta
nel sibilo la luce e ne dirompe l’iride.
L’abbaglio ammonitore è fermo nella salda
tenacia del ricordo: s’illumini il regresso
dell’uomo al suo patire, con le sue mani livide
la fredda guerra ci offra un òbolo di pace
.

*

Passo su passo apprende che è sua
la morte, l’uomo
avviato a riceverla. Quello che vede e ascolta
gli è proprio, l’insolenza d’avere in sé rivolta
per luce la sua faccia, ed il cammino, il verde
dei prati avrà memoria nel tempo, in ogni luogo.
Lascia cadendo un segno. Leggenda o storia, il rogo
dell’aria esalta innalza la vittima che perde.

Ma Hiroshima è l’arido sepolcro d’una culla,
la cenere d’un mondo che non dice più nulla.
La vittima non trova il volto da passare
al tempo che gli porti memoria dei suoi giorni
e la speranza, il credere per essere creduto.
L’abbaglio ammonitore è fisso in quel che appare,
è la notizia, il nuovo colpito dal suo segno,
il buco che s’allarga bruciando dai contorni
come un’orbita vuota: la storia è l’accaduto
che non dà voce e favola, che non tramanda un pegno
silente di memoria...

                       Ma dov’è la fanciulla
discesa al suo giardino movendo dai tranquilli
passi lo sguardo intorno? Trafitta dagli spilli
dell’iride sublime rifulse nell’evento
della sua luce, fusa. Non ebbe il suo momento,
all’attimo fu tolta, tentò l’assurdo plagio
di somigliarsi, piaga devota al suo contagio.

Non sarà più fanciulla, nemmeno il nostro amore
può ricordarla umana, distinguerle nel volto
mucoso gli occhi ciechi che videro in quel nulla.
Ma dov’è la vittoria che annunci al vincitore
quest’ibrido raccolto di lèmuri e di gechi?

E non sarà la morte chi non è più l’amore,
ma il suo fantasma, l’empio ludibrio che s’addita.
Per essere d’esempio all’ultimo terrore
che la sua mano suscita, per piangere più forte
del pianto, del suo pianto, la vittima è la sola
speranza che non mente. Non è pietà, parola
dell’anima tradita. È la sua carne sola
quest'ululo fuggente...


*

Attendere nel baco il seme da seccare,
la genesi demente che inverte il suo potere:
è questo da chiamare speranza per la fede
riposta nel terrore?
L'ipocrita paciere contratta lo sgomento
dell'uomo con l'offesa di chiedergli a misura
del peggio il suo contento, la scelta del volere
giustizia per sventura.

Questo chiede la terra: giustizia per sventura,
pane per fame, sete, ragione d'una guerra
che in sé non ha ragione per chiudere le mura
dell'assedio perenne, ragione d'una pace
che in sé non ha perdono d'arrendersi all'abiura.
L'uomo non è l'indenne saggezza del dolore.
Il fuoco non è brace.

Quest'uomo atteso a cedere il suo dolore antico,
a dirsi vinto e inerme, ha il volto del nemico
che logora il suo solco paziente e che non cede.
Ha l’arma della soma che porta e che misura
il suo passo dolente, il padre da chiamare
e se stesso nel figlio, la traccia del suo piede.
È l’uomo che vi esaspera tacendo con la pura
tristezza dello sguardo e che vi aspetta al fare.

Fatelo dunque il male, credetegli, spendete
la moneta sonante del rogo d’Hiroshima.
Ogni assetato resta a chiedere la sete,
sull’ultima parola ritornerà la prima
che avvenne nel chiamarci. Fatelo tutto il male,
credetegli, spendete la sua scienza beffarda.
La morte più non basta, demente irrisa guarda
la genesi una bianca eternità di sale.


(da La storia delle vittime, Mondadori, 1966)

.

“Era un giorno del tempo, un mattino d’estate” dice Alfonso Gatto, quel 6 agosto 1945 a Hiroshima. Un giorno come tanti, che però segnò un passo nella storia dell’umanità: gli americani alle 8.15 del mattino sganciarono “Little Boy”, la prima bomba atomica, sulla città giapponese. Così ne descrive gli effetti padre Pedro Arrupe, futuro generale dei Gesuiti, in missione proprio a Hiroshima: “Improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un'esplosione formidabile simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi. Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c'era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un'enorme vampa”. Alfonso Gatto si interroga invece sulla morale, su “questo nostro continuare a volere giustizia, indipendenza, libertà, anche a costo della sventura, pur di dare ai «mezzi» del potere (…) un fine nella scelta dell’uomo per una nuova storia, anch’essa aperta da decine e decine di migliaia di vittime”. E quelle bombe sganciate su Hiroshima il 6 agosto e su Nagasaki il 9, portarono il Giappone alla resa il 15 con un costo umano di 90.000-166.000 vittime a Hiroshima e di 60.000-80.000 a Nagasaki.

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LA FRASE DEL GIORNO
Folle, spergiuro // l’uomo che muta i suoi rapporti e crede / d’esser sempre centripeto fuggendo / la notizia raggiunta. Per qual fede / làcera il mondo e indulge al suo rammendo?
ALFONSO GATTO, La storia delle vittime




Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.


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