Il 25 ottobre prossimo a Milano don Carlo Gnocchi sarà proclamato beato. Sul portale della diocesi ambrosiana c’è una bella intervista a Don Giovanni Barbareschi, il giovane sacerdote conosciuto da don Gnocchi alla stazione di Udine nel 1943, al ritorno dalla Russia, e divenuto suo amico e confidente.
Don Barbareschi, medaglia d’argento della Guerra di Liberazione, rimase a fianco del “papà dei mutilatini” durante la fulminante malattia che lo colpì alla fine del 1955 e che lo portò alla morte nel febbraio del 1956. Convocato alla clinica Columbus, il giovane prete si sentì dire da don Gnocchi: «Voglio prepararmi a vivere la mia morte ricordando e rivivendo la mia vita». E obbedì, portandogli nastri di musica classica, libri di poesia e di teologia, da David Turoldo a Teilhard de Chardin, conversando con lui per ore, parlando di fede e ricordando figure amate, come la madre di don Gnocchi.
Così racconta Don Giovanni Barbareschi: Sono stato con don Carlo giorno e notte nel corso dell’ultimo mese, fino alla sua morte: per me è stata l’esperienza più forte e più significativa della mia umana vicenda. Quando la gravità del male fece capire che ormai i giorni erano pochi, don Carlo volle celebrare quella che sarebbe stata la sua ultima Messa. Lui a letto con addosso la vestaglia blu che metteva solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da campo, sul quale c’erano come calice la sua teca e una piccola reliquia di Santa Teresa del Bambino Gesù - oggetti a lui molto cari, perché li aveva sempre tenuti con sé quando era cappellano militare in Grecia e in Russia - e il crocefisso che la mamma gli aveva regalato per la sua prima Messa. «Adesso domandiamo perdono a Dio con le nostre parole», e ciascuno disse le sue parole. Iniziammo con la parola dell’uomo. Leggemmo un passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così: morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955. E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che ama». Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca». Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»). I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi - disse a me -, e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto, ricordava ciascuno. Terminata la consacrazione, volle che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.
LINK: L’INTERVISTA A DON GIOVANNI BARBARESCHI
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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni disordine morale è un atto di guerra. La vita invece deve rinascere e con essa la dolcezza dell’amicizia. In un mondo come il nostro, inaridito, agitato, maniaco, è necessario mettere olio d’amore sugli ingranaggi dei rapporti sociali e formare nuclei di pensiero e di resistenza morale, per non essere travolti.
DON CARLO GNOCCHI, Restaurazione della persona umana
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