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IN UNA LINGUA CHE NON SO PIÙ DIRE
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
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IN SICILIA, A MEMORIA DEGLI AMICI
Se mia madre è piena di grazie,
se con me, con la sua voce d’agnella,
discorre del sesso degli angeli,
vantandosi del mio come una ladra
che ha le ciglia lunghe, passionali;
se lei quella sua meraviglia a guardia
del mio sonno pone, se a palme aperte
arriccia e smorza sul nascere i coltelli
dell’invidia, se scongiurando fa
fuoco e fiamme, l’inferno nel dialetto,
nella sua bocca zecchino e nerofumo;
se ammansisce tigri e leoni, lusinghe
intorno intorno alla mia snella vita;
se sola intreccia a cometa parole
nel cielo dei suoi capelli a chiocciola,
uno col mio avvenire, col favore
di madre che va negli Inferi e viene,
nessuno in Sicilia lo tradisce,
nemmeno col pensiero, con la luna:
vive conteso al destino, di spalle,
nascosto in una nuvoletta di sale.
In Sicilia, a memoria degli amici,
nei versi oscuri della divozione,
uno simile sovente si cita,
con uno scorpione sul guanciale.
(da Codice siciliano, Scheiwiller 1957)
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LA FRASE DEL GIORNO
Non c'è lido più lontano di quello dove non si approda.
STEFANO D’ARRIGO, Horcynus Orca
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