martedì 5 maggio 2020

Eavan Boland



Un ictus si è portato via il 27 aprile la poetessa irlandese Eavan Boland. Nata a Dublino il 24 settembre 1944, iniziò a scrivere poesie da studentessa universitaria passando da temi femminili quali la vita quotidiana di una giovane moglie, i figli e la casa a una visione più femminista raccontando l’identità di donne irlandesi in un paese dalla forte connotazione patriarcale. Con il trascorrere del tempo altri temi si sono inseriti: l’emigrazione delle figlie, il senso di una terra e di un’identità perdute, la bellezza della quotidianità, il mito.

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ANNA LIFFEY

Life, racconta la leggenda,
era la figlia di Carman,
e giunse alla piana di Kildare.
Si innamorò delle pianure e dei fossi
e dell’orizzonte irraggiungibile.
Chiese che prendesse il suo nome.
Il fiume prese il nome dalla terra.
La terra prese il nome da una donna.

Una donna sull’uscio di una casa.
Un fiume nella sua città natale.
Là, sulle colline sopra la mia casa,
nasce il fiume Liffey, è una sorgente,
nasce tra giunchi ed erica e
torba nera e felci e s’ingrossa
per reclamare la città che ha narrato.
Cigni. Ripide cascate. Piccole città.
L’aria brumosa e i ponti di Dublino.

Scende il crepuscolo.
La pioggia dalle colline si muove verso est.

Se potessi vedermi
vedrei
una donna su un uscio
addosso i colori che stanno bene coi capelli rossi.
anche se i miei capelli non sono più rossi.

Io celebro
i doni del fiume.
Il suo narrare continuo
immutabile e scintillante di una città,
la limpidezza del suo corso,
in compagnia di piccoli fiori e aironi,
lungo un’ansa a Islandbridge
e sotto tredici ponti fino al mare.
La sua pazienza all’imbrunire –
i cigni che nidificano ai lati,
il neon che vi sussulta dentro.

Creatore di
luoghi, rimembranze,
narra questi frammenti per me:

Un corpo. Uno spirito.
Un luogo. Un nome.
La città dove sono nata.
Il fiume che la attraversa.
La nazione che mi sfugge.

Frazioni di una vita
che mi ci è voluta una vita intera
per rivendicare.

Arrivai qui un freddo inverno.

Non avevo figli. Né paese.
Non sapevo il nome della mia stessa vita.

Il mio paese mi prese.
Le mie figlie nacquero.

Uscii una sera d’estate
per chiamarle dentro.

Un nome. Poi l’altro.
Le belle vocali riecheggiavano casa.

Fa’ di una nazione ciò che vuoi
fa’ del passato
ciò che puoi –

C’è ora
una donna su un uscio.

C’è voluta
tutta la mia forza per far questo.

Diventare una figura in una poesia.

Usurpare un nome e un tema.

Un fiume non è una donna.
Anche se i nomi che trova,
la storia che fa
e subisce –
le lame dei Vichinghi sulle sponde,
i moschetti delle Giubbe Rosse,
le fiamme delle Quattro Corti
che lo accendono
sono un segno.
Non più di quanto
una donna sia un fiume,
anche se il corso che prende,
tra cigni in amore e salici sconvolti,

la sua pazienza
che è anche la sua impotenza,
da Callary a Islandbridge,
e da sorgente a foce,
ne sono un altro.
E alla soglia dei cinquant’anni
quando ormai non credo più
che l’amore risanerà
ciò che la lingua non riesce a sapere
e ha bisogno di dire –
Ciò che il corpo vuol dire –
io prendo questo segno
e traccio questa immagine:
una donna sull’uscio di casa.
Un fiume nella sua città natale.
La verità di una vita sofferta.
La sua foce.

Gli uccelli marini rientrano dalla costa.
La saggezza popolare vuole che portino pioggia.
Li osservo dall’uscio.
Li vedo come congetture di un’origine –
lasciano una forza aspra all’orizzonte
solo per ritrovarla
che cade obliqua altrove.
Quale acqua –
quella che lasciano o quella che pronunciano –
rievoca l’altra?

Sono convinta
che il corpo di una donna che invecchia
sia un ricordo
e dargli una lingua
è difficile
come piangere e volere
che questi uccelli emettano un grido quasi potessero
riconoscere il loro elemento
rievocato e ridotto a
una singola lacrima.

Una donna che invecchia
non trova rifugio nella lingua.
Trova invece che
singole parole un tempo amate
come “estate” e “giallo”
e “sessuale” e “pronta”
sono all’improvviso diventate dimore
di qualcun’altra –
stanze e tetto sotto i quali un’altra
è benvenuta, non lei. Dimmi,
Anna Liffey,
spirito dell’acqua,
spirito del luogo,
com’è che in questa
piovosa sera d’autunno
il mare d’Irlanda prende
i nomi che tu hai formato, i nomi
che tu hai concesso, e ti restituisce
solo un vuoto di parole?

La pioggia autunnale
si fa sporadica e sgocciola
da tettoie
e siepi potate.
Le gronde sono piene.

Quando arrivai qui
non avevo né
figli né paese.
Gli alberi erano braccia.
Le colline erano sogni.

Ero libera
di immaginare uno spirito
nei blu e nei verdi,
nei colli e nelle nebbie
di una piccola città.

Le mie figlie nacquero.
Il mio paese mi prese.
Una visione in una casa di mattoni.
È soltanto l’amore
che fa un luogo?

Lo sento cambiare.
Le mie figlie
crescono, diventano grandi.
Il mio paese si tiene stretto
alla sua pena.

Spengo
la fastidiosa luce
gialla del portico e
resto nell’ingresso.
Dov’è casa adesso?

Segui la pioggia
verso i colli di Dublino.
Fa’ che diventi il fiume.
Fa’ che lo spirito del luogo sia
ancora una volta un’anima perduta.

Alla fine
non importerà
che io sia stata una donna. Ne sono certa.
Il corpo è una sorgente. Niente più.
C’è il suo momento. C’è una certezza
nel modo in cui cerca la sua dissoluzione.
Pensa ai fiumi.
Sono sempre in viaggio verso
il proprio annullamento. Fin dal primo momento
vanno verso casa. E così
quando la lingua non lo può fare per noi,
non può farci sapere che l’amore non ci diminuirà,
ci sono le frasi
dell’oceano
a consolarci.

Particolari e senza paura del loro compimento.
Alla fine
tutto ciò che mi ha pesato e distinto
si perderà in questo:
sono stata una voce.


(Anna Liffey, da Nuove poesie scelte, 2005 – Traduzione di Giorgia Sensi)

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AMBRA

Che un tempo ci sia stato un grande dolore, non ha mai avuto importanza:

gli alberi sulle colline, nei boschetti, che piangono –
un oro di plastica che cola

a terra per secoli e stagioni –
fino ad ora.

In questo bel pomeriggio di settembre in cui tu non ci sei
tengo stretto, come se la mia mano lo potesse custodire,
un monile d’ambra

che mi hai donato un tempo.

La ragione dice questo:
i morti non possono vedere i vivi.
i vivi non rivedranno i morti.

L’aria chiara di cui abbiamo bisogno per ritrovarci è
svanita per sempre, eppure

questa resina un tempo
ha raccolto semi, foglie e anche piccole piume mentre cadeva
e cadeva

e ora in un’atmosfera solare sembrano vivi
come non mai

come se il passato fosse presente e il ricordo stesso
un baltico miele –

uno sfregamento agli orli del visibile, un’esibizione di solo quello
che si può conservare

in un’imperfetta traslucenza.


(Amber, da Tempo e violenza, Le Lettere, 2010 – Traduzione di G. Sensi e A. Sirotti)

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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia comincia dove comincia il linguaggio: tra le ombre e le difficoltà della vita di una persona.
EAVAN BOLAND, Un viaggio con due mappe




Eavan Frances Boland (Dublino, 24 settembre 1944 – Dublino, 27 aprile 2020) è  poetessa e accademica irlandese. Esordì nel 1966 con 23 Poesie passando da temi femminili al femminismo. Docente di letteratura inglese alla Stanford University, ebbe sempre a cuore l'identità nazionale irlandese e il ruolo delle donne nella storia del suo paese.


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