"Io conosco la fame, l’ho provata. Bambino, alla fine della guerra, sono con quelli che corrono sulla strada accanto ai camion degli americani, io allungo le mani per acchiappare le barrette di chewingum, il cioccolato, i pacchetti di pane che i soldati lanciano al volo. Bambino, ho una fame tale di grasso che bevo l’olio dalle scatole di sardine, lecco con golosità il cucchiaio d’olio di fegato di merluzzo che mia nonna mi dà per rafforzarmi. Ho talmente bisogno di sale che inghiotto i cristalli di sale grigio preso a piene mani dal barattolo in cucina".
[...]
"Questa fame è in me. Non posso dimenticarla. Accende una luce acuta che mi impedisce di dimenticare la mia infanzia. Senza di essa, io non avrei conservato la memoria di quel tempo, di quegli anni così lunghi, quando mancava tutto. Essere felice è non rammentarsi di quei momenti. Sono stato infelice? Non so. Semplicemente ricordo d’essermi svegliato un giorno, di aver conosciuto infine lo stupore per la sensazione dei bisogni appagati. Questo pane troppo bianco, troppo dolce, che ha un profumo troppo buono, quest’olio di pesce che mi scende in gola, questi grossi cristalli di sale, questi cucchiai di latte in polvere che lasciano una pasta al fondo della bocca, contro la lingua, sono il momento in cui ho cominciato a vivere. Esco dagli anni grigi, entro nella luce. Sono libero. Esisto".
È uno stralcio da "Ritournelle de la faim", ultimo libro di Jean-Marie Le Clézio, Premio Nobel per la Letteratura 2008. La fame, quella che le nostre generazioni nel pasciuto occidente consumista non hanno mai provato, ma che i nostri nonni e i nostri padri, allora bambini come Le Clézio, nato nel 1940, hanno conosciuto benissimo. Come il prozio che ha combattuto in Grecia e Montenegro e che mi raccontava delle patate strappate ai campi ghiacciati, delle rane rincorse negli stagni. Una fame atavica che scendeva dagli anni di carestia delle civiltà contadine e attraversava due guerre mondiali e le sanzioni economiche.
Noi abbiamo dimenticato, noi avevamo il latte e gli omogeneizzati, avevamo la carne e il pesce, l'opulenza degli sprechi. Ma abbiamo imparato con il tempo da gente di buonsenso: alla mensa delle medie non si poteva lasciare nulla nel piatto e il pane andava diviso con gli altri se ne volevamo mangiare solo un pezzetto.
La fame che attanaglia l'Africa, endemica, irrisolvibile, che spinge a facili moralismi senza trovare soluzioni adeguate riecheggia nelle parole dello scrittore francese, si fa ricordo e suona come un monito a non adagiarci nel nostro appagamento, ci grida di rammentare che se ora siamo così, circondati addirittura dal superfluo tanto da avere avuto per mesi il problema dello smaltimento dei troppi rifiuti, lo dobbiamo anche ai sacrifici sofferti dalla sua generazione e da quelle che le hanno precedute.
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LA FRASE DEL GIORNO
Signore, dona pane agli affamati ed affamati a coloro che hanno pane.
CATHERINE DOHERTY, Cercando Dio nel cuore dell'uomo: il piccolo mandato
Jean-Marie Gustave Le Clézio (Nizza, 13 aprile 1940) è uno scrittore francese. Fino alla metà degli anni settanta le sue pubblicazioni sono influenzate dal Nouveau Roman. In seguito, ispirato dalle sue origini, dagli incessanti viaggi e dalle culture degli indiani d'America, Le Clézio pubblica dei romanzi che rimandano all'onirismo e al mito. Nel 2008 gli è stato conferito il premio Nobel per la letteratura.
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