È disumana la guerra, anche se praticata dai primordi dell'umanità, quando orde di cavernicoli si affrontavano nelle brughiere armati di clave. Con il passare dei secoli ha affinato i suoi strumenti di morte: le lance, le alabarde, le catapulte romane, gli archibugi, i cannoni, i carri armati, la bomba atomica...
È disumana perché aliena, allontana gli uomini dalle loro occupazioni quotidiane, li spinge ad addentrarsi in un mondo che non appartiene al loro vissuto. Significativo è questo passo da una lettera di Clemente Rebora, scritta in zona di guerra il 7 dicembre del 1915:
"Ma non chiedermi notizie - la vita (sono come un Ugolino anonimo, fra lezzo di vivi e morti, imbestiato e paralizzato per la colpa e la pietà, e l'orrendezza degli uomini - di fronte a Gorizia) ch'io lordo nella gora del tempo, è quella di un troglodita che chiude un cuore. Non il pericolo continuo - diviene una triviale monotona abitudine, il macello perpetuo a cui siamo esposti; non tanto nemmeno il patimento fisico (fango e gelo, barbuto e baffuto e rasato in capo come un galeotto - «menzogna», e sofferenza d'ogni intorno, indicibilmente), ma l'interiore è terribile - e voi non potete farvene idea; «per questo» la guerra continua..."
(Lettera ad Antonio Banfi, da "Tra melma e sangue", Interlinea, 2008)
Rebora era entrato in guerra da interventista poco convinto. Ma, catapultato negli orrori del Carso e del Podgora, aveva saputo rendere l'umanità superstite in tanta bestialità, in tanto "macello", come già si è visto parlando di "Voce di vedetta morta", una delle sue poesie più accorate e più crude. Per lui la guerra finì subito: la vigilia di Natale del 1915, ormai prossimo ad una attesa licenza,fu vittima di shell-shock quando gli esplose vicino un colpo di obice da 305. Quel proiettile lo lasciò vivo ma scioccato, pellegrino tra i nosocomi militari, costretto a guardare l'orrore dentro di sé. Quel tiro da 305 cambiò anche la sua vita, che, attraverso un lungo e travagliato percorso mistico, è poi sfociata nel sacerdozio cattolico.
È disumana la guerra: ci spossessa della nostra umanità. Scrive Rebora in un'altra lettera, indirizzata a Lavinia Mazzucchetti il 3 dicembre 1915: "Cento mila Poe, con la mentalità però tra macellaio e routinier, condensati in una sola espressione, potrebbero dar vagamente l'idea dello stato d'animo di qui. Si vive e si muore come uno sputerebbe".
Fotografia: Department of Defense
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LA FRASE DEL GIORNO
Nessuno infatti, è così stolto da preferire la guerra alla pace, poiché in tempo di pace sono i figli che portano alla sepoltura i padri, mentre in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli.
ERODOTO, Storie, I, 87
Clemente Luigi Antonio Rèbora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1º novembre 1957) poeta italiano. Dopo una giovinezza inquieta alla ricerca di una dimensione trascendente, prese parte alla Prima guerra mondiale rimanendo ferito sul Podgora. Nel 1928 una crisi religiosa lo avvicinò alla fede cattolica: nel 1936 fu ordinato sacerdote.
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