domenica 4 febbraio 2024

Vivere et cetera


WISŁAWA SZYMBORSKA

RECENSIONE DI UNA POESIA NON SCRITTA

Nelle prime parole dell'opera
l'autrice afferma che la Terra è piccola,
il cielo invece fin troppo grande,
e, cito, «con più stelle del necessario».

Nella descrizione del cielo si avverte una certa impotenza,
l'autrice si perde in uno spazio orribile,
è colpita dall'assenza di vita su molti pianeti,
e presto nella sua mente (aggiungiamo: non rigorosa)
comincia a nascere una domanda:
e se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell'universo?

A dispetto del calcolo delle probabilità!
E della convinzione oggi universale!
Malgrado le irrefutabili prove che uno di questi giorni
possono cadere nelle mani umane! Ah, poesia.

Intanto la nostra profetessa torna sulla Terra,
un pianeta che forse «ruota senza testimoni»,
la sola «science-fiction che il cosmo può permettersi».
La disperazione di Pascal (1623-1662, la nota è nostra)
sembra all'autrice non avere concorrenza
su nessuna Andromeda o Cassiopea.
L'esclusività ingigantisce e impegna,
sorge dunque il problema di come vivere et cetera,
dato che «il vuoto non lo risolverà al posto nostro».
«Mio Dio,» grida l'uomo a se stesso
«abbi pietà di me, illuminami...»

L'autrice si tormenta al pensiero della vita dissipata con tanta leggerezza,
come se ce ne fosse una scorta inesauribile.
Delle guerre, che - secondo il suo dispettoso parere -
sono sempre perdute da entrambe le parti.
Dell'«autorisadismo» (sic!) dell'uomo sull'uomo.
Nell'opera traspare un intento morale.
Forse sotto una penna meno ingenua avrebbe sfavillato.

Purtroppo, ahimè. Questa tesi fondamentalmente azzardata
(se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell'universo)
e il suo sviluppo in uno stile disinvolto
(un misto di solennità e di linguaggio comune)
obbligano a chiedersi chi possa crederci.
Certamente nessuno. Appunto.

(da Grande numero, 1976 – Traduzione di Pietro Marchesani)


Il poeta odierno è scettico e diffidente anche - e forse soprattutto - nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta quasi se ne vergognasse un po'” dichiarò la poetessa polacca Wisława Szymborska nella lettura per il Premio Nobel 1996. In questa ironica satira della critica letteraria in cui si arriva addirittura a interpretare il non ancora scritto, il pensato, la poetessa – che non si palesa, anzi riduce a zero l’io lirico – è ben consapevole che “arriva il momento in cui il poeta si chiude la porta alle spalle, si libera di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimane in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perché, a dire il vero, solo questo conta”. È lì che è la vera, la unica, la sola poesia: “Non ci sono professori di poesia. Se così fosse, vorrebbe dire che si tratta d’una occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarità, elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine diplomi ricevuti con solennità. E questo a sua volta significherebbe che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti di versi più eccelsi – ma che è necessario, e in primo luogo, un qualche certificato con un timbro. Ricordiamoci che proprio su questa base venne condannato al confino il poeta russo, poi premio Nobel, Iosif Brodskij. Fu ritenuto un «parassita« perché non aveva un certificato ufficiale che lo autorizzasse ad essere poeta…”

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VLADIMIR KUSH, "LAMPADA CHE LEGGE"

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  LA FRASE DEL GIORNO 

Limitati. / Preferiscono il giovedì all’infinito. / Primitivi. / Preferiscono una stonatura all’armonia delle sfere.
WISŁAWA SZYMBORSKA




Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012), poetessa e saggista polacca, insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1996 “per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d'umana realtà”.


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