WISŁAWA SZYMBORSKA
ELEGIA DI VIAGGIO
Tutto è mio, niente mi appartiene,
nessuna proprietà per la memoria,
e mio finché guardo.
Dee appena ricordate, già incerte
delle proprie teste.
Della città di Samokov solo la pioggia,
nient’altro che la pioggia.
Parigi dal Louvre fino all’unghia
si vela d’una cateratta.
Del boulevard Saint-Martin restano scalini
e vanno in dissolvenza.
Nient’altro che un ponte e mezzo
della Leningrado dei ponti.
Povera Uppsala,
con un briciolo della grande cattedrale.
Sciagurato ballerino di Sofia,
corpo senza volto.
Ora il suo viso senza occhi,
ora i suoi occhi senza pupille,
ora le pupille di un gatto.
L’aquila del Caucaso volteggia
sulla ricostruzione d’una forra,
l’oro falso del sole
e le pietre finte.
Tutto è mio, niente mi appartiene,
nessuna proprietà per la memoria,
e mio finché guardo.
Innumerevoli, inafferrabili,
ma distinti fino alla fibra,
al granello di sabbia, alla goccia d’acqua
- paesaggi.
Neppure un filo d’erba
conserverò visibile.
Benvenuto e addio
in un solo sguardo.
Per l’eccesso e per la mancanza
un solo movimento del collo.
(Elegia podróżna, da Sale, 1962 – Traduzione di Pietro Marchesani)
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Che cosa riportiamo dai viaggi? Qualche biglietto, brochures di musei, delle fotografie, una cartina un poco logorata, magari anche sporcata di caffè o unta di qualche cibo locale. Ma soprattutto – come nota la poetessa polacca Premio Nobel Wisława Szymborska – dai viaggi riportiamo solo pochi ricordi, riportiamo effimere visioni che ci restano negli occhi, impressioni che iscriviamo da qualche parte nella corteccia cerebrale mentre tutto il resto scompare nel presente del viaggio, nel quale possedevamo invece quel mondo come nostro.
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FOTOGRAFIA © WE♥IT
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LA FRASE DEL GIORNO
Come sempre suole accadere in un lungo viaggio, alle prime due o tre stazioni l’immaginazione resta ferma nel luogo da dove sei partito, e poi d’un tratto, col primo mattino incontrato per via, si volge verso la meta del viaggio e ormai costruisce là i castelli dell’avvenire.
LEV TOLSTOJ, I cosacchi
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