Gian Pietro Lucini, nato a Milano nel 1867 e scomparso per una grave forma di tubercolosi ossea a Breglia, sul Lago di Como, il 13 luglio 1914, può essere considerato l’anello di congiunzione tra l’Ottocento e il Novecento italiano: la sua verve di ribelle lo portò ad essere dannunziano e poi antidannunizano, futurista e poi antifuturista, socialista e poi anarchico. Un artista capace di mettersi sempre in discussione in virtù di una perfetta adesione dell’Arte alla Vita: “Ma se è vero che l'Arte è rifugio e consolazione delli ammalati inquieti, in cui la salute del cuore e dell'intelligenza contrasta colla morbosità degli altri organi, all'Arte mi affidai come alla sposa ed alla madre, che non tradiscono. Ho avuto ragione. Il mio atto di Vita d'allora in poi si è sempre confuso colla mia espressione d'Arte; la mia Azione è la mia Letteratura”.
Divenne così una voce d’avanguardia, un trait-d’union tra la Scapigliatura e il Simbolismo e il Futurismo, anche se spesso il suo verso si faceva confuso e convulso, come se nella sua penna si affollassero parole e concetti che premevano per uscire tutti assieme. E questa inquietudine – per certi versi anche aristocratica - è la caratteristica principale del suo dire poetico.
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ESPETTORAZIONI DI UN TISICO ALLA LUNA
«La chair est triste…»
MALLARMÉ, Brise Marine
Luna,
luogo comune delli sfaccendati;
in ogni prova prosodica
facile rima ai sonetti romantici;
belletti e vernice sentimentale alla bionda e alla bruna
per gustar la primizia dei contatti antematrimoniali;
lenocinio archetipo alle adultere;
mezza maschera vuota di simboli;
tegghia d’ottone a friggervi i capricci di Diana;
crachat maggiore allo stomaco immedagliato del cielo;
Luna, ho creduto in te;
al tuo patrocinio incappai nella ragna tesa
da due sguardi e da quattro parolette,
buscai solennemente
d’una verginità posticcia e macra
l’imberciatura classica.
Luna,
clorotica fortuna d’argento a navigare,
della tua faccia mi feci un altare:
vi ho deposto, in offerta, le più tirchie ed amare soddisfazioni
de’ miei sensi impotenti e castigati,
tutto quanto lasciai, con falsa umiltà,
alle gioie del mondo,
alla tentata e recusatasi felicità.
Luna,
il mio cuore ti sospira e si svuota
d’amarezze e ti vomita bestemmie:
sono un povero tisico che rece
coi coaguli rossi il suo buon cuore.
Luna,
balzata sul palcoscenico del firmamento,
mongolfiera celeste in convulsione sorretta dal vento,
simulata matrice in gestazione,
per scodellarci questa Primavera;
ho vergogna di te che, senza velo,
balli la danza del ventre sul cielo.
Occhiaccio strabico e permaloso,
sbìrciami in terra, sono il tuo sposo;
sogguarda dalla palpebra rossa e purulenta.
Testé, fosti uno specchio verdognolo
gobbuto ad occidente
di un’acida e bacata melarancia:
sarai libidinosa bocca spalancata,
con lunga lingua di luce a imbavare
i bei fianchi alle Nubi vaghe e strane,
prone al divano dell’orizzonte
callipigie e impudiche cortigiane.
Questo a te, questo a me
il contagio riserba alla fregola:
anche sopra le cime della notte
stirano e snodano le membra erette dal peplo le Nubi
pazze e infeconde, convulse e corrotte.
Luna,
civetta ipocrita a starnazzare
per l’aja insabbiata di stelle
fra il Carro e lo Scorpione,
sopra il catarro e il colascione della poesia classica,
ho le vertigini, non guardarmi più.
Un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche,
Luna smorta, o sorella,
oggi compunta e avvelenata
dispensatrice di atroci virtù.
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PER CHI?
Per chi volli raccogliere
questo mazzo di fiori selvaggi
stringerli in fascio nel gambo spinoso ed acerbo?
Tutti i fiori vi sono di sangue e di lacrime
raccolti lungo le siepi delle lunge strade;
dentro le forre delle boscaglie impervie;
sui muri sgretolati delle capanne lebbrose;
lunghesso i margini che lambe e impingua
il rivolo inquinato dai veleni.
decorso dal sobborgo alla campagna.
Tutti i fiori vi son, che, pei giardini urbani e decaduti,
tra le muffe e i funghi, s’ammalan da morirne,
e gli altri che sboccian sfacciati e sgargianti,
penduli al davanzale d’equivoci balconi meretrici:
tutti i fiori cresciuti col sangue e colle lacrime ai detriti.
Per chi io canto questi fiori plebei e consacrati
dal martirio plebeo innominato,
in codesto sdegnoso rifiuto di prosodia,
per l’odio e per l’amore,
per l’angoscia e la gioia,
e pel ricordo e la maledizione,
per la speranza acuta alla vendicazione?
Ed è per voi, acefale ed oscure falangi,
uscite da un limbo di nebie e di fiumi,
tra il vacillar di fiamme porporine, in sulla sera,
da portici tozzi e sospetti di nere officine?
ed è per voi, pei quali non sorride il sole,
schiavi curvi alla terra, che vi porta,
e rinnovate al torneo dell’armata,
ma non vi nutre, vostra?
ed è per voi, pallide teorie impietosite
di giovani, di vecchie e di bambine
inquiete tra la fède e i desiderii,
tra la tentazione della ricca città
e il pudor permaloso della verginità?
Per chi, per chi, questa lirica nuova,
che bestemmia, sorride, condanna e sogghigna,
accento sonoro e composto dell’anima mia,
contro a tutti, ribelle e superbo,
in codesto rifiuto imperiale d’astrusa prosodia?…
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LA FRASE DEL GIORNO
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