LA FRASE DEL GIORNO
J. D. SALINGER, Nove racconti
Mousseline alle fragole
GEORGES PEREC
LA VITA. ISTRUZIONI PER L’USO
Prendere trecento grammi di fragoline di bosco o quattrostagioni. Passarle al setaccio fitto. Mescolare con duecento grammi di zucchero grezzo. Mescolare e incorporare al composto mezzo litro di panna montata a neve. Riempire con il detto preparato delle coppette di carta e metterle al fresco per due ore in un portaghiaccio piuttosto stretto. Al momento di servire, guarnire ogni coppetta con una grossa fragola.
In quel pot-pourri letterario che è “La vita. Istruzioni per l’uso” di Georges Perec, tra i vari pezzi che compongono l’insieme – ognuno dei 99 capitoli un appartamento di un caseggiato parigino – non poteva mancare una ricetta.
Siamo all’inizio, è il terzo capitolo: tre uomini stanno compiendo i primi passi dell’iniziazione per entrare in una setta, quella dei “tre uomini liberi”, la “Seura nami”. I tre novizi, davanti al maestro Yoshimitsu, seduti sui calcagni, in equilibrio su grossi cubi metallici spigolosi, devono superare la prova della meditazione che consente di ignorare il dolore: per fare ciò devono contemplare un oggetto banale. A uno dei tre, un divo francese della canzone, tocca un antico libro culinario inglese…
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Fotografia © Pickpik
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LA FRASE DEL GIORNO
Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo.
OSCAR WILDE
Da solo
uno può ma non molto
da solo uno beve
e da solo uno canta
da solo uno
se crede deve pregare.
In due
si grida meglio
con zelo di larve
con gesti di gomma
su letti di bronzo
prima e dopo il saccheggio.
La somma
dei due vuoti ci somiglia.
(da "Civilissimo 1", 1958)
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Gli aspetti salienti della poesia di Nelo Risi sono i toni satirici e moralistici: con il suo stile nudo ed essenziale spoglia i versi di ogni orpello letterario e da acuto osservatore denuncia il vivere meccanico e volgare della società contemporanea (è il periodo che precede il boom economico dei Sessanta), analizza con ferocia comportamenti che diventano grotteschi e ipocriti, ne coglie il lato volgare con un’amara sfiducia.
Così la coppia raccontata in questa poesia assurge a simbolo dell’amore ai tempi dell’automazione: Risi conclude che “la somma / dei due vuoti ci somiglia”, ovvero l’unione di due persone non forma una coppia ma rimane un’unità. Anche la matematica viene stravolta: quell’uno+uno non dà quindi due come somma, ma rimane una monade. E se da soli ci si può ubriacare e cantare e pregare, in due si fa l’amore come macchine, “con gesti di gomma / su letti di bronzo”, rimanendo vuoti…
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Fotografia © Jacob Charles Dietz
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LA FRASE DEL GIORNO
(La poesia) è sempre in allarme sempre in ascolto, mette l’accento sulla ferita, si accende da sé il rogo piuttosto di finire bruciata viva.
NELO RISI, Prefazione alle “Poesie scelte”
Nelo Risi (Milano, 21 aprile 1920), poeta e regista italiano. Laureato in Medicina, non praticò mai la professione. Partito da una lezione montaliana, si staccò dall’ermetismo trovando il suo spazio espressivo in uno spirito critico, spesso ideologico, capace di indagare con una precisione nitida e scrupolosa gli aspetti psicologici e sociali del vivere.
Nella nebbia luminosa del mattino
la casa dolcemente indietreggia e s'appanna;
si piegan sullo stelo, nel giardino,
dolci fiori di spuma e di manna.
(da Il quaderno dei sogni e delle stelle, 1924)
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La Giornata della memoria si celebra oggi, 27 gennaio, ricordando il giorno in cui nel 1945 l’Armata Rossa liberà il campo di sterminio di Auschwitz. Dopo aver fatto parlare gli scorsi anni la poesia con Primo Levi e Maria Luisa Spaziani, quest’anno propongo alla meditazione sull’orrore della “soluzione finale” voluta da Hitler e dai suoi gerarchi la figura di Etty Hillesum, una giovane donna ebrea di Amsterdam che, nonostante gli inviti degli amici ad abbandonare l’Olanda – tentarono addirittura di rapirla, volle seguire il doloroso percorso della sua famiglia. Etty e i suoi famigliari vennero rinchiusi nell’agosto 1942 nel campo di Westerbork, il “Durchganslager”, un campo di smistamento al confine tra Olanda e Germania. Vi rimase un anno. Il 7 settembre del 1943 salì con la madre, il padre e il fratello Mischa sul treno che ogni settimana deportava i prigionieri di Westerbork ad Auschwitz: là morirà il 30 novembre. E vi moriranno anche il padre, la madre e Mischa, mentre l’altro fratello Jaap, sopravvissuto al campo, morirà tornando in Olanda.
Etty Hillesum nel 1941, a ventisette anni, iniziò a tenere un diario per tentare un’introspezione psicologica dopo l’incontro con lo “psicochirologo” Julius Spier: “Nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con tutta la mia chiarezza di pensiero a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito”. Era dunque un viaggio nel suo mondo interiore di donna tormentata. Ma improvvisamente la crescita e la liberazione di Etty devono fare i conti con la storia, con gli eventi esterni che danno una linea diversa alla sua testimonianza: dopo lo sciopero anti-pogrom del febbraio 1941, i nazisti inasprirono la repressione contro gli ebrei olandesi. Ai maltrattamenti e alle umiliazioni di essere cacciati dal lavoro e di non poter comperare nei “normali” negozi seguirono l’obbligo di portare la stella di David, i ghetti e quindi i campi di lavoro e le deportazioni di massa.
Il diario, naturalmente più compiuto e maturo di quello pur commovente della quattordicenne Anna Frank, venne presentato da alcuni amici di Etty a vari editori ma trovò pubblicazione solo nel 1981. È un altro documento che testimonia l’orrore di cui fu capace la Bestia Umana. Un orrore da non dimenticare per non essere costretti un giorno a doverlo rivivere.
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Non siamo nient’altro che botti vuote in cui si sciacqua la storia del mondo.
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24 ottobre 1941. Stamattina Levi. Non dobbiamo contagiarci reciprocamente coi nostri cattivi umori. Questa sera una nuova ordinanza che colpisce gli ebrei. Mi sono concessa mezz’ora di depressione e di ansia per queste notizie. Una volta mi sarei consolata mettendomi a leggere un romanzo e lasciando perdere il mio lavoro.
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Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura.
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18 maggio 1942. Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più “raccolta”, concentrata e forte.
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9 giugno 1942, martedì sera, le dieci e mezzo. Stamattina alla prima colazione notizie più o meno circonstanziate dal ghetto. Otto persone in una cameretta, con la comodità che si può immaginare. Non si capisce, non si riesce a concepire che tutto questo succeda a poche strade da qui, che possa diventare il tuo proprio destino.
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E ora sembra che gli ebrei non potranno più entrare nei negozi di frutta e verdura, che dovranno consegnare le biciclette, che non potranno più salire sui tram né uscir di casa dopo le otto di sera. Se mi sento depressa per queste disposizioni – come stamattina, quando per un momento le ho avvertite come una minaccia plumbea che cercava di soffocarmi – non è, però, per le disposizioni in sé. Mi sento semplicemente molto triste, e allora questa tristezza cerca conferme.
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Si può benissimo credere nei miracoli in questo ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se tra breve i pidocchi mi avranno divorata in Polonia.
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3 luglio 1942. Dobbiamo trovare posto per una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere. Oggi, per la prima volta, sono stata presa da un gran scoraggiamento, mi toccherà fare i conti anche con questo, d’ora in poi. E se dobbiamo andare all’inferno, che sia con la maggior grazia possibile!
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In un campo di lavoro so che morirei in tre giorni. Mi coricherei, morirei, eppure non troverei ingiusta la vita.
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Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano.
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Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore.
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Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
QUI un sito dedicato a Etty Hillesum
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LA FRASE DEL GIORNO
In futuro, quando la mia casa non sarà più un giaciglio di ferro in un luogo circondato dal filo spinato, voglio avere una lampadina sopra il mio letto, così di notte ci sarà luce ogni volta che lo vorrò.
ETTY HILLESUM, Lettere da Westerbork, 11 agosto 1943
Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 14 dicembre 1895 – Charenton-le-Pont, 18 novembre 1952), poeta francese, è stato tra i maggiori esponenti del movimento surrealista. La sua poesia evolve da tematiche individualiste, di lirismo amoroso, a contenuti di forte ispirazione sociale.
Ah, è il bene di domani
tutto come ieri
nulla sarà mai come
lo si vede nelle pietre
Eppure tutto ci aspetta
al ritorno dell’ora di ieri
Si dovrà pur amare
come ancora mai
La nostra vita sarà tutta
com’è da allora
Temete il cielo indifferente
o il gioco dell’amore
E non è un gioco stasera
o domani sera
Si dovrà vivere ancora
anche nei giorni neri.
(da Poesie d’amore, trad. Francesco Bruno)
Una poesia ciclica e circolare come il tempo questa del surrealista francese Louis Aragon: alla fine quello che se ne ricava è l’invito a non disperare, per quanto il passato e il futuro sembrino talora intercambiabili e la tristezza di ieri non lasci intravedere cieli rosati… Questa indecifrabilità del domani, che non si può comunque leggere con certezza alla luce delle conoscenze del nostro ieri e del nostro oggi, non ci deve però turbare…
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Edward Hopper, "Le undici di mattina"
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LA FRASE DEL GIORNO
La vita accade indipendentemente da noi: possiamo solo accettarla o non accettarla.
GIORGIO SAVIANE, Il terzo aspetto
Louis Aragon (Parigi, 3 ottobre 1897 – 24 dicembre 1982), poeta e scrittore francese, membro dell'Académie Goncourt. Già aderente all'avanguardia dadaista, fondò poi il movimento surrealista insieme a André Breton. Nella sua opera la prosa rivaleggia con la poesia su forma metrica fissa.
Con “Che la festa cominci” Niccolò Ammaniti torna sui passi di un romanzo come “Branchie”, innervando quella comicità spesso delirante e fantasiosa sulla sua capacità di dipingere personaggi borderline e sgangherati. Ammaniti non abbandona la provincia che ha fatto da sfondo a “Come Dio comanda”, “Io non ho paura” e “Ti prendo e ti porto via”, ma la trapianta direttamente nel cuore di Roma, in una Villa Ada tramutata da un imprenditore parvenu in un incredibile parco dei divertimenti ad uso e consumo di vip sempre più dediti al vizio.
La commedia umana è il tratto distintivo di Ammaniti, che qui porta il suo solito zoo in un vero e proprio “zoo”, quello ricostruito con vecchi animali dei circhi dal palazzinaro Sasà Chiatti nel parco di Villa Ada (nella realtà la zona è in un inconcepibile degrado e Ammaniti, nei ringraziamenti finali, lancia un appello alle istituzioni perché intervengano). Qui si intrecciano le vicende di Saverio Moneta, un disgraziato ragioniere succube della moglie ricca, che per evadere da quel mondo, si è inventato con il nome di Mantos come capo di una setta satanica composta da soli quattro elementi (e uno di essi è la “vittima” di una messa nera, stuprata e sepolta viva, che, sopravvissuta, si è unita agli altri tre), e di Fabrizio Ciba, uno scrittore in gravissima crisi di ispirazione, volubile, alcolizzato e sempre in cerca di donne dall’avventura facile.
La festa è l’inaugurazione del parco di Villa Ada con dispendio di effetti speciali, dall’illuminazione a giorno al concerto della cantante italiana più celebre nel mondo, Larita, dai fuochi d’artificio alla caccia alla tigre, alla volpe e al leone. Le cose non andranno come avrebbe voluto il palazzinaro, ma si trasformeranno in tragedia e in rovina, a simboleggiare il disfacimento di una società che vive ormai sull’orlo del precipizio. Dopo l’Armageddon finale la vita riprende nel solito modo: le bassezze, le miserie e i vizi ricominceranno a emergere dalle macerie e, come sempre, sarà dagli umili a giungere una scintilla di speranza.
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LA FRASE DEL GIORNO
La prima regola di ogni vero scrittore è: mai e poi mai, nemmeno in punto di morte, nemmeno sotto tortura, rispondere alle offese. Tutti aspettano che tu cada nella trappola della risposta. No, bisogna essere intangibili come un gas nobile e distanti come Alpha Centauri.
NICCOLÒ AMMANITI, Che la festa cominci
Felice ombra dei capelli
che serpeggia quando il sole è al tramonto,
simile a giunchi aperti - è tardi; fredda
umidità lasciva, quasi polvere -.
Delicata una cenere,
il grembo segreto del giunco,
serpente tenero senza veleno
di cui lo sguardo verde non fa male.
Addio. Dondola il sole
i quasi rossi, quasi verdi raggi.
La triste fronte aureolata immerge.
Umido, freddo, sapore di terra.
(da La distruzione o amore, 1935)
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“La distruzione o amore” è una raccolta di poesie del sivigliano Vicente Aleixandre molto meditata e dolorosa: quella “o” disgiuntiva nel titolo è già il risultato finale, la conclusione che l’amore è sì la forza radicale dell’essere e della vita, ma raggiungibile solo con la dissoluzione della forma e della vita stessa. Molti critici hanno ravvisato analogie con l’estasi amorosa di Santa Teresa, coronata dalla morte. Alla luce di tale equazione amore=morte, del resto non nuova in quanto sviluppata ad esempio da Giacomo Leopardi e da Guido Gozzano, va allora letta questa lirica, la più breve delle 54 che compongono il volume.
Aleixandre esprime il suo surrealismo romantico dipingendo una scena serale, tappezzando di analogie dal vago sentore di muschio il lento tramontare del sole: dissoluzione della forma, si è detto sopra, ed ecco che, come in un dipinto di Picasso, l’elemento naturale del tramonto viene scomposto in un delirio di parti e di colori che si confondono, dall’ombra dei capelli alle radici dei giunchi, dalla loro verde cima alla fronte del sole; i rossi e i verdi si uniscono e si disperdono in un gioco quasi psichedelico. E sullo sfondo rimane quel triste odore di morte: la cenere, l’umidità, la polvere, il freddo, il sapore della terra…
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LA FRASE DEL GIORNO
Voglio sapere se il cuore è una pioggia o un confine, / quel che resta da parte quando due si sorridono, / o è solo la frontiera tra due mani recenti / che stringono una pelle calda che non divide.
VICENTE ALEIXANDRE, La distruzione o amore
Vicente Aleixandre (Siviglia, 26 aprile 1898 – Madrid, 14 dicembre 1984), poeta spagnolo della Generazione del’27, passò dall’iniziale Surrealismo a una visione antropocentrica. Fu insignito del Premio Nobel nel 1977. “per un'opera di creazione poetica innovativa che illustra la condizione dell'uomo nel cosmo e nella nostra società attuale”.
L’altra sera ho visto un episodio dell’ottava stagione della serie “Criminal Intent”: il brutale assassinio che è oggetto di ogni puntata stavolta avveniva nel mondo dei poeti. Scattavano allora le battutine: “Ma esistono ancora i poeti?”, “Chi può andare ad assistere a una lettura di poesie? Saranno stati davvero in pochi…”, “Ma la poesia non era morta?”.
Mi è poi capitato di leggere uno stralcio del saggio postumo “Il reato di scrivere”, pubblicato pochi giorni fa da Adelphi, del poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, scomparso nel 1978: “I promotori di un’inchiesta mi hanno domandato «Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?». Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: «Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?». (…) La domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge. Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. (…) La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio”.
Allora, ha ancora senso scrivere poesie, leggere poesie, emozionarsi di fronte all’emozione di un poeta, immettere in quei versi anche le proprie emozioni? O è meglio piantare baracca e burattini e affidarsi agli SMS, a Facebook, a Twitter, a un linguaggio base di 800 parole che trasforma le nostre vite in pianure piatte come la Val Padana, lontano dalle vette eccelse e fuori moda della poesia?
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Immagine © The Grizzly Den
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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia è un nesso tra due misteri: quello del poeta e quello del lettore.
DÁMASO ALONSO
Juan Rodolfo Wilcock (Buenos Aires, 17 aprile 1919 – Lubriano, 16 marzo 1978), poeta, scrittore, critico letterario e traduttore argentino naturalizzato italiano. La sua vita può essere divisa in due parti: quella vissuta in Argentina fino al 1957, con sei raccolte, e quella successiva, a Roma e Lubriano. Scrisse in spagnolo e italiano.
Il giorno della fine del mondo
L'ape gira sul fiore del nasturzio,
Il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri i delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.
Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l'ombrello,
L'ubriaco si addormenta sul ciglio dell'aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all'isola,
Il suono del violino si prolunga nell'aria
E disserra la notte stellata.
E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.
Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.
Varsavia, 1944
(da Poesie scelte, 1931-1987)
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Tutte le religioni e tutte le culture hanno un traguardo escatologico, quella che in parole più accessibili è chiamata “la fine dei giorni”. I Maya, per esempio, credono che avverrà il 21 dicembre del 2012, i cattolici fanno riferimento al vangelo di Matteo (“nessuno conosce l'ora o il giorno”) e all’Apocalisse, gli ebrei attendono il loro settimo millennio, che avrà inizio tra oltre 1200 anni, i protestanti e gli avventisti sono in attesa dell’Armageddon, anche gli islamici hanno il loro giorno del giudizio.
Il poeta polacco Czesław Miłosz, premio Nobel per la Letteratura nel 1980, emigrato negli Stati Uniti nel 1960 per sfuggire al regime comunista e divenuto dieci anni dopo cittadino statunitense, dipinge una scena minimalista di questo giorno finale: nulla di diverso, tutto come al solito, quasi che ogni giorno possa esserlo senza neppure saperlo. Solo un vecchio contadino conosce la verità…
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Vincent Van Gogh, “Seminatore col sole che tramonta”
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LA FRASE DEL GIORNO
Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
LAO TZU
Le parole non sono né di destra né di sinistra e tantomeno di centro: sono pure e semplici parole, convenzioni fonetiche che servono ad esprimere fino nei più piccoli dettagli le sfaccettature della realtà visibile e invisibile nella quale siamo immersi. Però la politica le piega ai suoi scopi, così come piega anche le coscienze, e non solo quelle.
Prendiamo “laico”: è un periodo in cui molti si proclamano laici, intendendo dire che sono atei e non gliene frega niente della Chiesa Cattolica e vorrebbero che la Chiesa Cattolica non si interessasse a loro. Sono fatti personali. Però in termini strettamente semantici “laico” significa “non consacrato” e perciò in effetti tutto il mondo è composto da laici, anche i credenti. Gli unici a non potersi dire “laici” sono i preti, le suore, i vescovi, i cardinali, il papa. La radice etimologica di “laico” risale al greco “laós”, popolo, contrapposto a “klêros”, parte eletta della comunità. Cioè, laico è chi non riveste cariche.
Da un po’ di tempo, rilanciata anche dalla Chiesa, in particolare dalla CEI, c’è poi la parola “migranti”, opposta a “clandestini” e a “extracomunitari”: i disperati che lasciano la povertà e la fame africana per venire in Italia su barche di fortuna a soffrire una nuova fame e una nuova povertà. A seconda del giornale o del parlante, si riesce a capire per chi vota alle elezioni. Così è anche per l’uso della definizione “governo di Tel Aviv” o “governo di Gerusalemme”: un giornale di sinistra scriverà la prima per indicare Israele, uno di destra la seconda, è in ballo il riconoscimento del diritto dello stato ebraico a esistere. Punti di vista, sponde opposte…
Poi c’è un uso strumentale delle parole, ed è quello di non farsi comprendere, di lasciare aperte alternative e scappatoie, di pararsi con la via di fuga della smentita. C’è una bellissima tabella dell’italianista Cesare Marchi in cui le varie frasi possono essere mescolate a piacere, il “Prontuario di frasi a tutti gli usi per riempire il vuoto di nulla”. Qui il generatore online. Si può ottenere ad esempio questa bella frasetta:
La valenza epidemiologicaPolitici veri e propri, ma anche politici sportivi, come il presidente della Lega Calcio, Giancarlo Abete: qualche sera fa l’ho sentito rispondere all’intervistatore sul problema del razzismo negli stadi. Non ci ho capito niente ed è proprio quello che voleva: non scontentare i tifosi, le società e i giocatori. C’è riuscito perfettamente, peccato che così si mantiene sempre lo status quo. Politica…
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LA FRASE DEL GIORNO
Nelle parole c’è qualcosa d’impudico.
CESARE PAVESE, La casa in collina
Il “frammento” fu un genere evocativo in voga circa un secolo fa, a cavallo dei primi due decenni del Novecento: una lirica molto descrittiva e molto prosastica dall’evidenza alquanto formale, il momento che viene colto nel suo breve essere. Un rigoroso e coerente rappresentante di questo stile fu il romano Arturo Onofri, nato nella Capitale nel 1885 e lì morto a 43 anni. Nel 1912 aveva fondato con Baldini, Fracchia e De Santis la rivista letteraria “Lirica”, fu poi collaboratore di “La Diana”, “Nuova Antologia” e “La Fiera Letteraria”. I suoi versi sono, come detto, prosastici; così come, del resto, le sue prose sono abbellite da un’illuminazione lirica. In questi pochi esempi riportati si può notare l’evoluzione dello stile di Onofri, che dal 1907 al 1927 va perdendo via via quell’incrostazione classicheggiante a vantaggio di un più fluido e più moderno scorrere.
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Risorge, dalla notte che dirada,
la prima voce d'alberi tranquilla;
sull'intrisa ramaglia, a stilla a stilla,
s'aggòcciola brillando la rugiada.
Murmuri vaghi d'erbe e di ruscelli
tra il rosicchìo d'un ghiro ancor famelico;
in un cespuglio, un indistinto anelito
fra uno sfrullare tacito d'uccelli.
E dall'orror silvano, l'ombre a sciami
fuggono ai loro mattutini esilî;
piovendo, fra il fogliame nero, fili
tremuli d'oro sui vocali rami.
Melodia della luce, incerta e varia
in un languore ancora vanescente;
pur, tra le fronde grigie e sonnolente
già s'inazzurra il palpito dell'aria.
E d'improvviso, nel silenzio, un coro
scoppia dal folto, echeggia in tutto il cielo,
mentre, lungi da un fluido roseo velo
balzano monti sfolgoranti d'oro.
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La capinera cuce cuce e cuce.
Dalla quercia solitaria
con le acce lunghe lunghe del suo canto
ombra e sole in terra cuce,
cuce sereno e nuvole nell'aria,
finché tra i tronchi l'erba è tutta luce
e il cielo è tutto eguale liscio e bianco
come una pura conchiglia di canto.
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Armonie del mattino altolucenti!
Lo sparso arcobaleno dei colori
sogna sé lungo il brivido dei venti,
nel grembo delle nuvole e dei fiori,
____________nel sospiro d'un prato
____________che sembra oro soffiato.
La luce ascolta il proprio metter ali,
che tramuta crisalidi in farfalle,
e dal buio dei bozzoli invernali
risorge in melodie blu rosse gialle,
____________svegliando sugli steli
____________mille piccoli cieli.
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BIBLIOGRAFIA POETICA
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LA FRASE DEL GIORNO
La parola di un poeta è essenza del suo essere.
ALEKSANDR PUSKIN
Arturo Onofri (Roma, 15 settembre 1885 – 25 dicembre 1928), poeta e scrittore italiano, tra i massimi poeti metafisici del Novecento. Aderì al Frammentismo, che costruisce le opere per mezzo di eventi slegati: i suoi versi prosastici fanno da contraltare alle prose abbellite da un’illuminazione lirica. La sua opera fu influenzata dall’incontro con Rudolf Steiner.
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Sant'Antonio abate, noto anche con gli appellativi di sant'Antonio il Grande, sant'Antonio d'Egitto, sant'Antonio del Fuoco, sant'Antonio del Deserto, sant'Antonio l'Anacoreta e Sant’Antonio del Porcello, fu un eremita egiziano, uno dei padri del deserto. Visse in una grotta della Tebaide in meditazione e contemplazione tra il 251 circa e il 17 gennaio del 357.
Il santo, da non confondere con l’omonimo del 13 giugno, Sant’Antonio da Padova, è molto venerato e la sua festa è presa a pretesto per numerosi proverbi sulla stagione invernale. Naturalmente, spesso a gennaio nevica, e anche copiosamente – la famosa “nevicata del secolo” del 1985 in Lombardia si protrasse dal 15 al 17 spargendo un manto bianco di 80 centimetri, avverando il detto “Sant’Antoni de la barba bianca, se ‘l piöf mea la nef no manca” (se non piove, la neve non manca), che si può udire un po’ in tutto il paese: “Sant'Antonio dalla barba bianca s' n' chiov la nev n' manca” in Ciociaria, “Sant'Antoniu cu la barba bianca, ci nu chioe la nie nu manca” in Salento. In Romagna c’è la variante “Sant'Antoni d'la berba bienca se un la ia us sla fa” (se non l’ha, se la fa)…
Il freddo è ancora notevole: e infatti in Trentino dicono: “Sant’Antoni, san Bastian e santa Agnes i é i marcanti da la nef”, accomunando i santi del 20 gennaio (Sebastiano) e del 21 (Agnese). A Milano si arriva fino a San Biagio, il santo del 2 febbraio: “A Sant’Antoni, frècc da demoni, a San Sebastian, frècc da can, a San Bias, el frècc l’è ras” (A Sant’Antonio freddo da demonio, a San Sebastiano freddo da cane, a San Biagio il freddo è colmo). In Lunigiana è attestato “Sant Antòn gran ferdüra, San Lurénzu gran kóudüra o yön o l àtr póg u düra” (A Sant’Antonio gran freddo, a San Lorenzo – il 10 agosto – gran caldo; l’uno e l’altro poco durano), identico al siciliano “Sant'Antoniu gran friddura, San Lurenzu gran calura; l'unu e l'àutru pocu dura”. Sempre in Sicilia c’è questo detto: “O ricissetti 'i Sant'Antoniu nesci 'a gran friddura e trasi 'a gran calura”, il diciassette di Sant’Antonio esce il gran freddo ed entra il gran caldo. Beati loro…
C’è poi un altro dato puramente astronomico che comincia a farsi visibile: il solstizio d’inverno è passato da ormai un mese e le giornate cominciano ad allungarsi: ecco allora i bergamaschi dire “Nedàl ü pass de gàll, Pasquèta ün urèta, Sant'Antóne ün'ura gròsa” (A Natale il passo di un gallo, all’Epifania un’oretta, a Sant’Antonio un’ora buona). In Brianza il proverbio diventa “A Sant'Antoni un'ura e un grögn” (A Sant’Antonio un’ora e un pezzo di pane) oppure “A Sant'Antoni un'ura e un glori” (un’ora e un Gloria). In Valsesia “Sant 'Antoniu da Quaruna n'ora buna” (a Quarona -è un paese – un’ora buona). In Umbria c’è una tabella completa da Santa Lucia a Sant’Antonio: “Santa Lucia, la giornata più corta che ce sia; Natale 'na sbattuta d'ale; annu vecchiu, passu d'un vecchiu; annu nôu passu d'un bôe; Pasquarella (Epifania) un'orarella; Sant'Antonio, un'ora bona”.
Per quanto riguarda la tradizione dei falò, molto diffusa in tutta Italia, rimando al post dello scorso anno.
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Pontormo, “Sant’Antonio abate”
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LA FRASE DEL GIORNO
Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra e dissi gemendo: – Chi mai potrà scamparne? E udii una voce che mi disse: – l'umiltà.
SANT’ANTONIO ABATE, in “Vita e detti dei Padri del deserto”
È un peccato che tu non sia con me
quando guardo l’orologio e sono le quattro
e finisco la pagina e penso dieci minuti
e stiro le gambe come tutte le sere
e faccio così con le spalle per allentare la schiena
e piego le dita e ne ricavo menzogne.
È un peccato che tu non sia con me
quando guardo l’orologio e sono le cinque
e sono una maniglia che calcola interessi
o due mani che saltano su quaranta tasti
o un orecchio che ascolta come latra il telefono
o un tipo che fa numeri e ne ricava verità.
È un peccato che tu non sia con me
quando guardo l’orologio e sono le sei.
Potresti avvicinarmi di soppiatto
e dirmi “Come va?” e resteremmo
io con la macchia rossa delle tue labbra
tu con il segno blu della carta carbone.
(da “Inventario tres”)
L’amore sognato, desiderato. Un’assenza di cui a mancare maggiormente è la tenerezza. Ecco il poeta al lavoro – in questo caso l’uruguayano Mario Benedetti – nell’era precedente al computer: macchina per scrivere, fogli bianchi, carta carbone, vecchia calcolatrice con maniglia. Il tempo scorre, il lavoro avanza affaticando il corpo: le dita danzano sui tasti della macchina, le bozze crescono foglio dopo foglio. Il tempo scorre e l’amore è lontano, non è lì a confortare con la sua sola presenza. Basterebbe poco, un bacio, una carezza, la macchia del rossetto sulla guancia del poeta, il segno blu lasciato dalle dita sporcate dalla carta carbone sul viso di lei…
Fotografia © Eye-Makeup
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LA FRASE DEL GIORNO
La lontananza è il fascino dell’amore.
CORRADO ALVARO, Quasi una vita
Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti-Farugia, noto come Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), poeta, saggista, scrittore e drammaturgo uruguaiano. Figlio di immigrati italiani, fece parte della Generazione del’45. Nel 1973 fu costretto all’esilio dal golpe militare. Rientrò nel 1983.
“Io descrivo ciò che sembra inaccettabile”. Risuonano come una triste profezia queste parole, che sono il motto dello scrittore haitiano Lyonel Trouillot.
Il paese, i 27.700 chilometri quadrati più poveri dell’intero continente americano toccati in sorte a nove milioni di abitanti, ha non solo una travagliatissima storia di dittature e di colpi di stato, ma deve anche dividere l’isola di Hispaniola su cui si trova con la ricca e turistica Repubblica Dominicana, stesso numero di abitanti e superficie doppia, storia meno intensa e migliore fortuna con gli eventi naturali.
Ora, la catastrofe si è abbattuta su Haiti: come se non bastassero i quattro uragani che nel 2008 seminarono morti e carestia. Il terremoto di 7.0 gradi sulla scala Richter che ha colpito Port-au-Prince radendola al suolo e provocando un numero di vittime stimato in mezzo milione, ha avuto una potenza trenta volte superiore al sisma dell’Aquila che ci ha tanto impressionato.
“Haiti è la storia di una catastrofe”. Lo sanno bene gli haitiani: questa frase è di un altro scrittore ed editore dell’isola, Rodney Saint-Eloi. Conoscono il colonialismo che ebbe il volto degli spagnoli assetati d’oro: annientarono gli indigeni Taìno e Arauachi sostituendoli con gli schiavi africani importati dai negrieri. Conoscono il colonialismo americano che nel 1915 si impadronì del paese e lo occupò militarmente fino al 1934, mantenendone il controllo anche nel secondo dopoguerra. E conoscono la delusione subentrata al processo di decolonizzazione: non fu libertà, ma una dittatura che si perdeva nei mille rivoli della corruzione, della violenza incontrollata e sanguinaria, della gestione feroce del potere da parte della famiglia Duvalier, dal 1957 al 1986. Conoscono infine e soprattutto la povertà, visto che questi eventi l’hanno prodotta come risultato: l’indice di sviluppo umano è di 0,521 e colloca Haiti al 148° posto nel mondo, contro lo 0,768 e il 91° posto della vicina Repubblica Dominicana; la mortalità infantile è assurdamente alta, 57% – si pensi che in Italia è del 3% – la speranza di vita è di 58 anni per i maschi e di 61 per le femmine.
“Haiti è il regno della poesia, noi scrittori siamo lettori dell’universale”. Nonostante tutte queste tragedie, agli haitiani non è mai mancata l’allegria caraibica, la voglia di manifestare le proprie emozioni: lo testimonia questa descrizione della sua patria fatta da Lyonel Trouillot, scampato al terremoto, così come Saint-Eloi. Il mondo si è già messo in moto per aiutare la popolazione colpita da uno dei più devastanti sismi degli ultimi duecento anni: generi di prima necessità, cani da macerie, ospedali da campo, tende. Servirà ben altro, questa volta occorrerà non abbandonarli ancora. Forza, Haiti!
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Fotografia © North Country Public Radio
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LA FRASE DEL GIORNO
Le disgrazie cercano e trovano il disgraziato anche se si nasconde nell’angolo più remoto della terra.
MIGUEL DE CERVANTES, Colloquio dei cani
Onore a quanti nella propria vita si proposero la difesa di Termopili. Mai allontanandosi dal dovere; giusti e retti in tutte le azioni, con dolore perfino e compassione; generosi se ricchi e, se poveri, anche nel poco generosi, pronti all'aiuto per quanto possono; sempre con parole di verità ma senza odio per chi mente.
E ancora maggiore onore è loro dovuto se prevedono (e molti lo prevedono) che alla fine apparirà un Efialte e i Medi infine passeranno.
1903
(Traduzione di Paola Maria Minucci)
Quella delle Termopili è forse la battaglia più celebre della storia. Era la seconda metà di agosto del 480 avanti Cristo quando trecento Spartani, sostenuti da settecento soldati tespiesi, sotto il comando del re di Sparta, Leonida, bloccarono a lungo l’avanzata dei guerrieri persiani, approfittando della conformazione geologica dello stretto passo: le popolazioni elleniche riuscirono così a organizzarsi e a porsi in salvo.
Serse e Mardonio, che guidavano i Persiani e potevano contare su almeno 300.000 uomini armati di lance e giavellotti (il cielo si oscurava quando venivano lanciati, sostiene Erodoto), mandarono all’assalto le loro truppe in schiere di 10.000 soldati, che venivano regolarmente massacrati nel corpo a corpo, dopo che la formazione a testuggine degli scudi spartani aveva reso vane le armi da lancio. Persino le truppe scelte, i diecimila Immortali guidati da Idarne, dovettero soccombere ai soli mille greci.
La resistenza incredibile degli Spartani e dei Tespiesi fu stroncata solo dalla viltà: i Persiani riuscirono a sfondare e a cogliere alle spalle i greci grazie al tradimento di uno di loro, Efialte, che indicò ai Medi una strada alternativa che mise allo scoperto i suoi compatrioti.
Konstantinos Kavafis trae una metafora universale da questo episodio storico: le Termopili, la resistenza eroica diventano il trionfo dell’onestà, della rettitudine, della solidarietà, dell’amore di verità, del principio che gli uomini riescono a praticare nelle loro vite anche di fronte alle tentazioni. Le nostre Termopili personali, dunque. E anche qui, molto spesso basta un nuovo emulo del traditore Efialte a vanificarle…
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Jacques-Louis David, “Leonida alle Termopili”, 1814
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LA FRASE DEL GIORNO
Il mondo saprà che degl'uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti, e prima che questa battaglia sia finita, che persino un dio-re può sanguinare.
ZACK SNYDER, KURT JOHNSTAD e MICHAEL GORDON, 300
Konstantinos Petrou Kavafis, (Alessandria d'Egitto, 29 aprile 1863 – 29 aprile 1933), poeta e giornalista greco. Pubblicò 154 poesie, spesso ispirate all'antichità ellenistica, romana e bizantina, percorre, mirando al sublime, i vari gradi di un'esperienza estetica congiunta alla pratica dell'amore omosessuale.
Cara, cerchi laggiù due che s'aggirano
e nel vento che sbianca il lungomare
si soffermano, poi lenti riprendono
l'uno all'altro sorretti in un respiro.
Credi di riconoscere la traccia
d’un cammino che va, oscilla nell'ombra,
dici che noi per sempre siamo là
in un tempo che non balza né affonda.
Ma io ti dico che quelli non esistono.
Non furon vivi nemmeno in sogno.
Quel che fu non è vero. Non è vero
che ciò che volevamo e non avemmo.
(da Coraggio di vivere, 1956)
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“La vita mi ha profondamente modificato” scriveva Alessandro Parronchi nella prefazione a “Diadema”, l’antologia delle sue poesie da lui stesso raccolta nel 1997. E raccontava la presa di coscienza del realismo, del “vero” come “unica possibile scelta”. Questo suo realismo poetico risalta qui, in “Lido”, dove la sua visione si contrappone a quella di una donna amata – e si noti che quando scrive questi versi il poeta fiorentino ha appena superato i trent’anni. Il ricordo, il suo fascino consolatorio, non appartiene – o non appartiene ancora – a Parronchi: se la donna riesce a riconoscere nella memoria un punto fermo, una giornata ventosa sul lungomare, il poeta si scopre invece disincantato, non è il passato che rincorre ma il passato come avrebbe dovuto svolgersi nel desiderio. E, come Gozzano, si scopre a desiderare “le rose che non colsi / le cose che potevano essere / e non sono state”.
Diane Romanello, “Palm Beach”
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LA FRASE DEL GIORNO
Quanto è più propinquo l’uomo a un suo desiderio, più lo desidera; e non lo avendo, maggior dolore sente.
NICCOLÒ MACHIAVELLI, Clizia, I, 2
Alessandro Parronchi (Firenze, 26 dicembre 1914 – 6 gennaio 2007), poeta, storico dell'arte e traduttore italiano. Con il suo stile ricercato è passato da un ermetismo incantato a un intimismo che trae giovamento dalla consolazione della memoria: per questo le sue poesie sono oggetto di un meditato lavorio con cui il ricordo media l’emozione.