LA FRASE DEL GIORNO
...seconno le statistiche d'adesso / risurta che te tocca un pollo all'anno: / e, se nun entra nelle spese tue, / t'entra ne la statistica lo stesso / perché c'è un antro che ne magna due.
TRILUSSA, Poesie, La Statistica
Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 9 marzo 1908 – Roma, 31 gennaio 1981), poeta, saggista e critico d'arte italiano. Noto come Il poeta ingegnere per il fatto che lavorò per Olivetti e Pirelli e per aver fatto convivere nelle sue opere cultura umanistica e cultura scientifica. Fondò e diresse la rivista “Civiltà delle macchine”.
20 GENNAIO: OBAMA GIURA come presidente degli Stati Uniti. Il primo afroamericano. L’evento è giudicato come una svolta epocale, ma nel corso dell’anno molte speranze si affievoliranno e la popolarità del presidente scenderà. Il Nobel per la Pace “sulla fiducia” non giova, la riforma della sanità sì.
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9 FEBBRAIO: ELUANA ENGLARO MUORE dopo 17 anni di stato vegetativo. Le polemiche sull’alimentazione forzata e sul trattamento di fine vita portano altra tensione in un mondo politico già dilaniato e spaccato da un bipolarismo sfrenato. Non c’è accordo su un “testamento biologico”, l’iter della legge è tormentato.
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17-23 MARZO: IL VIAGGIO IN AFRICA DI BENEDETTO XVI verte sui temi della situazione religiosa e sociale del Continente Nero, ma passa alla storia per la polemica seguita alle frasi del pontefice sull’AIDS e sulla “umanizzazione della sessualità”.
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6 APRILE: IL TERREMOTO DEVASTA L’AQUILA e l’Abruzzo. La scossa principale è di 6,3 gradi di magnitudo e scuote la terra alle 3.32 del mattino. I morti sono 308, i feriti 1500, gli sfollati 65.000.
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MAGGIO: LA PANDEMIA terrorizza il Messico e poi il mondo intero. L’influenza suina, poi ribattezzata influenza “A” semina il panico e la psicosi, oltre a morti e malati. Arriverà in Europa in autunno e compariranno i “gel disinfettanti per le mani”. Topo Gigio testimonial contro il contagio.
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GIUGNO: LA PROTESTA IN IRAN – Dopo le elezioni presidenziali che riconfermano Ahmadinejad con grandi sospetti di brogli, esplode la rivoluzione verde: polizia e Basiji attaccano i manifestanti: la giovane Neda Agha-Soltan, colpita a morte, diventa il simbolo della rivolta, che spopola attraverso Twitter.
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8-10 LUGLIO – IL G8 ALL’AQUILA è un segno di speranza per la città. Lo ha trasferito lì il premier Berlusconi. Ci sono bozze di accordo sul clima e sul modo di contenere la crisi economica. Sono stanziati aiuti per l’Africa ed è stigmatizzata la corsa iraniana al nucleare.
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16 AGOSTO – USAIN BOLT SEGNA IL RECORD DEL MONDO SUI 100 METRI. Il giamaicano ai Mondiali di atletica di Berlino corre in 9”58. Il 20 corre i 200 metri e segna un altro record: 19”19.
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17 SETTEMBRE – SEI SOLDATI ITALIANI MUOIONO A KABUL in un attentato che coinvolge due mezzi blindati. Il 21 settembre i funerali di stato dei sei parà della Folgore suscitano molta commozione.
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2 OTTOBRE – LA FRANA DI GIAMPILIERI SUPERIORE è un’altra ferita in quest’anno martoriato per l’Italia: 37 morti nella località del Messinese e nei paesi vicini, Zanchetta Scalea, Molino, Altolia, Briga Marina e Briga Superiore.
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9 NOVEMBRE – LE CELEBRAZIONI PER IL VENTENNALE DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO. I leader del mondo si ritrovano a celebrare l’evento. Un domino artistico, avviato da Lech Walesa, lo replica.
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13 DICEMBRE – L’AGGRESSIONE A BERLUSCONI. Il presidente del Consiglio è colpito in Piazza del Duomo a Milano da una statuetta che riproduce la cattedrale. Ferito al volto, il premier è ricoverato al San Raffele per qualche giorno. Il clima velenoso venutosi a creare spinge il presidente Napolitano a invocare il dialogo e toni moderati.
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LA FRASE DEL GIORNO
Il tempo procede, scendendo a compromessi con gli avvenimenti.
FRANCIS SCOTT FITZGERALD, Belli e dannati
Si chiude il decennio ed è tempo di classifiche, che lasciano il tempo che trovano e altro non sono che un puro divertissement.
Il quotidiano francese “Le Figaro” ha svolto un sondaggio tra i suoi lettori per scegliere le migliori opere e i migliori artisti di questo decennio che finisce. Ecco il risultato.
CINEMA FRANCESE
© UFD
CINEMA INTERNAZIONALE
© TF1-News
CINEMA D’ANIMAZIONE
© Rotten Tomatoes
MUSICA: ALBUM INTERNAZIONALI
MUSICA CLASSICA: I PROTAGONISTI
© Uly Martín
LETTERATURA: NARRATIVA FRANCESE
LETTERATURA: NARRATIVA INTERNAZIONALE
© Marsilio
ARTE CONTEMPORANEA
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LA FRASE DEL GIORNO
Interpretare, collegare, classificare, tradurre in simboli sono tutte attività umane, attività naturali e inevitabili, che noi descriviamo genericamente e opportunamente come pensare.
IRVING BERLIN, Impressioni personali
Vieni, entra e coglimi, saggiami provami...
comprimimi discioglimi tormentami...
infiammami programmami rinnovami.
Accelera... rallenta... disorientami.
Cuocimi bollimi addentami... covami.
Poi fondimi e confondimi... spaventami...
nuocimi, perdimi e trovami, giovami.
Scovami... ardimi bruciami arroventami.
Stringimi e allentami, calami e aumentami.
Domami, sgominami poi sgomentami...
dissociami divorami... comprovami.
Legami annegami e infine annientami.
Addormentami e ancora entra... riprovami.
Incoronami. Eternami. Inargentami.
(da Medicamenta, 1982)
È un bel metodo questo della poetessa veneta Patrizia Valduga: usare un metro antico, la forma classica del sonetto per raccontare compiutamente le sue ossessioni erotiche, le passioni e i turbamenti che l’amore fisico sa dare. La strofa diventa così un mezzo per ordinare e mettere in fila quelle passioni: in questo caso è un susseguirsi di verbi, ben 47, che descrivono con una notevole varietà la prorompente vitalità amorosa. Come scrive nella prefazione alla riedizione di Medicamenta del 1989 Luigi Baldacci: «…così come in quasi tutte le opere della Valduga, il rigido schema metrico, costituito dall'alternarsi obbligato di rime e misure sillabiche, serve all'autrice per poter incanalare la piena sensuale che traspare dalle sue composizioni poetiche e per attenuare il suo lessico estremamente crudo ed erotico».
Illustrazione © Damien Hunin
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LA FRASE DEL GIORNO
Il sentimento è una cosa e l'erotismo un'altra. Ci sono soggetti portati per l'erotismo e soggetti portati per il sentimento. È raro che un uomo e una donna siano portati per tutti e due insieme. In questi casi è il finimondo.
LUIGI MALERBA, Il serpente
Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 20 maggio 1953), poetessa e traduttrice italiana, compagna per ventitré anni del poeta Giovanni Raboni. Ha fondato nel 1988 la rivista mensile Poesia che ha anche diretto per un anno. Nelle sue poesie ripristina in forma rigorosa tutti i generi metrici tradizionali, dal sonetto all'ottava, dalle terzine dantesche alle stanze di ballata.
Napoli il 26 dicembre 1916
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.
(da “L’Allegria”, 1931)
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Natale di guerra quello del 1916 per il ventottenne Giuseppe Ungaretti: il poeta però si trova in licenza, lontano dalle trincee del Carso dove i fanti combattono nel fango. Ungaretti trova ospitalità nella vastissima casa napoletana dell’amico Gherardo Marone: è lì che vorrebbe restare, dimenticato, a smaltire la stanchezza non solo fisica – anche dell’anima – nella calda sicurezza di quei muri. Non ambisce alle strade napoletane dove gli è apparso il fantasma della guerra raccontato in un’altra poesia di quel Santo Stefano del 1916:
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Napoli il 26 dicembre 1916
Il volto
di stanotte
è secco
come una
pergamena
Questo nomade
adunco
morbido di neve
si lascia
come una foglia
accartocciata
L'interminabile
tempo
mi adopera
come un
fruscio.
(da L’Allegria, 1931)
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È lo stesso Ungaretti a spiegare quale sia il fantasma, nelle note inserite in “Vita d’un uomo”, l’antologia che raccoglie tutte le sue poesie: “Il nemico eterno con il quale occorre fare i conti, con il quale occorre legarsi d’amicizia, eccolo che assume figura di compagno immemorabile, e il poeta lo sente dentro si sé, che si prende gioco di lui. Ma per quanto fragile, derisorio sia il poeta, sia l’uomo, per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare, un’intuizione l’ha punto qualcosa o qualcuno lo conduce verso un punto. La sua vita non è pura sordità, qualche cosa c’è da fare su questa terra: un punto, una formula da trovare, e non importa che tale sentimento d’accordo fondamentale con il tempo nemico, con l’universo delle forme, può oscurarsi o cancellarsi. Esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente”.
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.Soldati sul Carso - Pubblico Dominio
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LA FRASE DEL GIORNO
C'era la guerra, e tutti ne eravamo presi, e ormai sapevo che avrebbe deciso delle nostre vite. Della mia vita; e non sapevo come.
ITALO CALVINO, I racconti
Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.
E dunque è la mattina di Natale. Il vecchio avaro Mr Scrooge si è risvegliato dopo una notte di incubi e spalanca la finestra sulle vie innevate, lieto finalmente dopo il grande spavento della notte:
“Si vestì, col meglio che aveva, e uscì per la via. La gente si riversava fuori, com'egli l'aveva vista con lo Spirito del Natale presente. Camminando con le mani dietro, Scrooge guardava a tutti con un sorriso di soddisfazione. Era così allegro, così irresistibile nella sua allegria, che tre o quattro capi ameni lo salutarono: «Buon giorno, signore! Buon Natale!» E Scrooge affermò spesso in seguito che di tutti i suoni giocondi uditi in vita sua, i più giocondi, senz'altro, erano stati quelli”. (Charles Dickens, Canto di Natale")
Anche i bambini si sono risvegliati e con gli occhi improvvisamente vispi si sono riversati con ansia a cercare i pacchetti colorati sotto l’albero, li scartano, ridono esaltati davanti al nuovo giocattolo; gli innamorati si sono baciati scambiandosi i loro doni… Le campane suonano annunciando la Nascita nell’umile grotta. I saluti si spandono nell’aria come fiori: Auguri! Buon Natale! Buone feste! Le mani si stringono, i baci si schioccano sulle guance. E nelle cucine i profumi iniziano a salire: le patate arrosto, le tacchinelle ripiene, il brodo di cappone. Le luci degli alberi e dei presepi scintillano più vivide in questa giornata, i parenti cominciano a radunarsi, portano i loro doni, le loro bottiglie, i panettoni per il pranzo.
Un avviso per i meno cinici: non leggete il pezzo qui sotto, potrebbe rovinarvi la sorpresa del pomeriggio, rivelarvi come potrebbe essere… È tratto da “Natale” di Marco Lodoli:
“Anche quest'anno è andato tutto bene. Io ho avuto un paio di cravatte, un libro, l'ennesimo rasoio elettrico. I bambini hanno cominciato a giocare sul tappeto con i loro attrezzi elettronici, mentre mia moglie faceva girare gli aperitivi. A tavola, come al solito, abbiamo un po’ litigato parlando di politica, esattamente come ogni anno. La più grande delle mie nipoti, ha quasi diciott'anni ed è ribelle e arrabbiata come lo ero io, vorrebbe un mondo in cui tutti fossimo in pace, senza poveri, senza esclusi. Questa vita è ingiusta, ha detto, butta via la gente, la fa morire. Nessuno dovrebbe morire, ha gridato. Per riportare un po’ d'allegria a tavola, mio cognato ha raccontato come sempre due barzellette. Una era la stessa dello scorso Natale, ma nessuno l’ha interrotto. Dopo il panettone e il caffè, ci siamo sistemati sui divani per continuare a chiacchierare e bere un cognac. E dopo mezz’ora le parole sono iniziate a mancare ed è scesa la malinconia che segue la festa, qualche bambino sbadigliava tra i fogli accartocciati dei regali, e allora io ho acceso la televisione”.
Amici del “Canto delle Sirene”, a tutti i voi il mio “Buon Natale!”
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Ronald Bayens, "Mattina di Natale"
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LA FRASE DEL GIORNO
Torno a casa per Natale. Tutti lo facciamo, o dovremmo farlo. Tutti torniamo a casa per una breve vacanza – la più lunga, la migliore – dalla grande scuola dove siamo sempre al lavoro con i nostri conti, a dare e ricevere il resto.
CHARLES DICKENS, Un albero di Natale
Cosa poteva regalare “Il canto delle Sirene” ai suoi lettori? Naturalmente poesie. Eccovi dunque il mio dono: tre componimenti di poeti italiani che riflettono sul vero senso del Natale, senza il quale la festa diventa incomprensibile, puro evento consumistico svuotato di ogni valore…
Amiche e amici, Buon Natale con tutto il cuore!
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Splende la prima stella
della sera. Non sono solo,
Gesù, ci sei tu e
Pasternak mi ricorda
che è bene non essere famosi.
Tutti sono nel mio cuore,
e presto la tua stella
scenderà cadente sulla Terra. Fidati di me,
Gesù, ti canterò sempre,
per l'eternità. Il tuo miracolo
incessante, fino alla Fine dei Tempi.
(da Famiglia Cristiana, n. 51/1994)
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Questo è il Natale, esulta, a questa lampada
misera in che si circoscrive il senso
nella stanza, stasera, del conoscere
vieto e dappoco e di quel che non penso
se non nella tristezza dell'esistere,
sotto il notturno nembo del Natale
ecco una luce che non ha l'eguale,
che nel provando e riprovar dell'anima
che in sé conosce lo stellato dire
del tutto che è nell'essere creatura
quale la fece Iddio nata a soffrire,
ma per Lui nata... Oh dolce mia natura
che risente del seme e vuol morire
nel bianco d'una nascita sicura!
(da L'estate di San Martino, Mondadori, 1961)
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© All things Christmas
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Notte serena
santa notte
per ognuno
felice o maledetto che sia.
Possiamo dirci umani
almeno per una notte
ancora.
I fratelli di Milano
spezzino
il pane ai figli
della nebbia e del gelo.
A me basta un altare
e baciare
la pietra.
E gli amici di Monaco
cantino sotto la lampada
stille
nacht
Al mattino ci sarà sempre
qualcuno che accende
il forno crematorio
E io andrò
alla stazione a vedere
i treni partire.
O girerò per la notte
fino all'alba
a cercarmi un ciborio
per la mia
colazione.
(da Lo scandalo della speranza, Benvenuto, 1978)
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LA FRASE DEL GIORNO
Ma è la vigilia di Natale. Se è passato il tempo in cui accadevano miracoli, ci è rimasto almeno un giorno magico in cui tutto può succedere.
JOSTEIN GAARDER, La ragazza delle arance
La nebbia rosa
e l'aria dei freddi vapori
arrugginiti con la sera,
il fischio del battello che sparve
nel largo delle campane.
Un triste davanzale,
Venezia che abbruna le rose
sul grande canale.
Cadute le stelle, cadute le rose
nel vento che porta il Natale.
(da Il capo sulla neve, 1949)
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Il Caffè Florian è uno dei locali storici di Venezia. Aperto nel 1720, si affaccia su Piazza San Marco, dove i suoi lussuosi tavolini si allargano allegramente dai portici delle Procuratie Nuove. Sedersi lì, forse in questa stagione meglio accomodarsi all’interno nelle stanze decorate, e bere un caffè o una cioccolata fa immergere in un’atmosfera che parla d’altri tempi. È in quel mondo particolare che Alfonso Gatto ambienta questa sua poesia natalizia, in un clima tipicamente nebbioso e invernale che fa apprezzare al meglio Venezia, liberata da un bel numero di turisti.
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Fotografia © Giovanni Dall’Orto
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LA FRASE DEL GIORNO
Ho udito le campane di Natale, / il loro vecchio canto familiare, / dolce e selvaggio, / ripetere le parole / di pace in terra agli uomini di buona volontà.
HENRY LONGFELLOW, Ho udito le campane di Natale
Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.
Nel paradiso degli animali l'anima del somarello chiese all'anima del bue:
- Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia...?
- Lasciami pensare... Ma sì - rispose il bue. - Nella mangiatoia, se ben ricordo, c'era un bambino appena nato.
- Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?
- Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.
- Millenovecentosettanta, esattamente.
- Accidenti!
- E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
- Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
L'asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
- Ma no! - fece costui - Sul serio? Vorrai scherzare spero.
- La verità. Lo giuro. Del resto io l'avevo capito subito...
- Io no - confessò il bue - Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
- Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l'anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell'animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un'idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un'occhiata?
- Dove?
- Giù sulla terra, no!
- Ci sei già stato?
- Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
- Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
- Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
- E il lasciapassare per me?
- Ho un cugino all'ufficio passaporti.
Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d'aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un'espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
- Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
- Ma non vedi come sono tutti contenti?
- Contenti? A me sembrano dei pazzi.
- Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l'asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l'evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
- La pagheranno, bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile.
- Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
- E allora perché si sta massacrando così?
- Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
- Auguri? E a che cosa servono?
- Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
Si affacciarono, più in là, a un'altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all'altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
- Mi avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità, della pace.
- Già - rispose l'asinello. - Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi... Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
- Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L'asinello tacque.
- E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino. - Ho ormai la testa che è un pallone... Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
- No, no. È semplicemente Natale.
- Ce n'è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c'era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
- E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
- E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
- Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
- E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
- Ho idea di no - disse l'asino - c'è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c'era un soffitto di caligine e di smog.
(da Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie, 1990)
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Ce n’è troppo allora di Natale, dice il bue all’asino. Troppo Natale, troppe convenzioni: i regali, i biglietti d’auguri (allora, era il 1970, gli SMS oggi). Dino Buzzati, che abbiamo già visto interrogarsi sul significato vero del Natale indagando sull’egoismo, qui valuta un’altra faccia della moderna festività, quella consumistica e sociale.
Come era diverso, continua il bue: allora c’era solo un’umile stalla con la mangiatoia: pace e soddisfazione, il suono delle zampogne, le stelle, gli angeli… Ora il Natale è diventato come il cielo della città: una cappa di smog che sovrasta il nostro brusio ininterrotto.
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LA FRASE DEL GIORNO
Il Natale ritorna ogni dodici mesi, allo stesso giorno 25, con precisione matematica, non è quindi una cosa molto rara. tutti sanno come è fatto, tutti potrebbero descrivere in anticipo nei minuti particolari quello che accadrà nelle case rispettive. Eppure se ne resta sempre sbalorditi.
DINO BUZZATI, Lo strano fenomeno che si chiama Natale
Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.
Ai poveri balconi delle case felici
zeppe di strilli, inferme, in alto alle cornici,
ove il cielo dei fili si perde nell'albore
murario delle cupole e nel freddo del cuore,
e Napoli nell'agro falsetto trova il piglio
grinzoso, la sua matria ridicola di figlio
di scena è la facciata ove il Natale mostra
i melloni, le sorbe, l'uva dei merletti
di carta, i fichi d'India. (E' la nomenclatura
del far tutto con cura.) Qui sbiadiva la nostra
fanciullezza pensosa: la stanza, i vecchi letti,
il Vesuvio dipinto sul mare di Bengala.
Era l'aria festiva, era l'aria di tutti,
la porta sulla scala aperta ai pastori
che piangevano i lutti, il bambino che viene
in braccio alle novene.
Era un vederci fuori
di noi, "al vento, al gelo", per restar dentro, al fiato
di quel primo passato ove albeggiava il cielo.
Ho dipinto un ricordo, il ricordo ha la mano
paffuta di geloni per quel mangiare poco
in mostra sui balconi, ma dipingo per gioco.
(da Rime di viaggio per la terra dipinta, 1969)
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Natale è tempo di ricordi e di tradizioni che si rinnovano. La cena della Vigilia al sud, lo sfarzo del pranzo di Natale al nord. I prodotti tipici che tornano ogni anno: gli agnolotti, il capitone, il panettone, gli struffoli, il tacchino ripieno di castagne. E poi la tombola, lo stare insieme…
Alfonso Gatto dipinge – è il tratto distintivo di questo poeta che fu anche pittore – il ricordo del suo Natale napoletano. Una festa che fa della casa di facciata un immenso presepe, come quello tipico della città vesuviana: tutti diventano personaggi di quella scena, il Bambino che viene in povertà è uno di loro, poveri e colpiti dalle disgrazie della vita. È come vedersi per una volta dal di fuori, non più spettatori ma protagonisti, con la gioia della recita, del gioco. Almeno nel ricordo di un’infanzia lontana…
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Particolare di presepio napoletano del ‘700
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LA FRASE DEL GIORNO
Tutto si calma di memoria e resta / il confine più dolce della terra / una lontana cupola di festa.
ALFONSO GATTO, Poesie, Oblio
Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.
Accadde in quell'età... La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.
Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando
quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura saggezza
di chi non sa nulla,
e vidi all'improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l'universo.
Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell'abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.
(Traduzione di Roberto Paoli, qui l’originale spagnolo)
Neruda coglie un momento fondamentale nella vita di un poeta, quello della folgorazione – come San Paolo sulla via di Damasco, ci si trova improvvisamente illuminati, sbalzati dal cavallo grigio della quotidianità, si comprende che il mondo ha un’essenza che ci viene rivelata in quel momento, la gioventù, è chiaro.
Il poeta è colto da un’ebbrezza, da una smania che lo porta a riconoscersi tale vergando i primi incerti versi, dei quali poi forse ci si vergognerà. Ma è il punto di partenza, l’iniziazione che ci porta nell’età adulta, come capita ancora in certe tribù che vivono ai margini della civiltà del XXI secolo.
Così capitò anche a me, ormai tanti anni fa, uno dei primi giorni di gennaio, attraversando in auto con mio padre uno sperduto paese di provincia. La poesia mi si manifestò, lampo improvviso nel grigio. Avevo poco più di 15 anni. Da allora ne scrivo ogni giorno, fedele al motto “Nulla dies sine linea”… Certo, Neruda, è ancora lontano…
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Edward John Poynter, "Erato, musa della Poesia"
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LA FRASE DEL GIORNO
Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni.
GIUSEPPE UNGARETTI, L’allegria
Da moltissimo tempo fatico a chiudere i conti col Natale. Diciamo da quando sono arrivato all’età adulta, fra la prima e la seconda metà del secolo scorso. Anzi l’insorgere d’una tale angustia mi sembra adesso un saluto della vita, della mia vita, finite per sempre la fanciullezza e l’adolescenza. Ricordo come è iniziato: o - forse più vero - come è diventato esplicito. Era la sera della Vigilia, già buio, uscivo da una casa amica e mi dirigevo verso casa mia, che era ancora quella di mio padre e di mia madre. D’un tratto - non so se collegarlo a un rumore della strada quasi deserta, al suono d’una radio mentre passavo, a un piccolo scoppio di festa, nel silenzio - mi aveva investito un terribile, credo mai provato senso di solitudine e di infelicità; d’infelicità senza motivo, senza nome: ne avevo sentito l’ala su di me e subito si era rivelata, intera, mi ci ero trovato dentro: avvertendo che malgrado tutto, tutto ciò che avevo e che non mi veniva tolto, non poteva esserci rimedio. Sono momenti che passano, senza mai passare del tutto; che placandosi - e presto si placano, vengono coperti da altro, l’attenzione se ne distoglie naturalmente - lasciano degli strascichi: non vengono mai digeriti per intero.
E difatti un successivo Natale il malessere doveva manifestarsi proprio così, fisicamente, addirittura (come si dice) somatizzandosi. Era ancora la Vigilia, prima di cena, e finivamo un qualsiasi poker di figli di famiglia in una casa che non solevo frequentare: poste praticamente nominali, mi sembra che io nemmeno giocassi. Ed era una decaduta, mal illuminata casa di signori paesani ai quali restava abbastanza denaro; un ambiente disadorno che era insieme studiolo e stanza da letto di giovanotto (con tanto di armoir dal grande specchio maculato). Pretesto fu un marron glacé: uno solo, portato alla bocca distrattamente quasi al momento d’andare via. Mi rimase sullo stomaco fino a tarda notte; e in qualche modo oscuro io cominciavo a capire che era solo un segno. Tornava lo stesso senso gratuito di vuoto, di perdita, la stessa indefinibile, nuda tristezza, da cui non c’era vera guarigione, che poteva essere solo mescolata ad altro.
Ci si fa il callo? Come a tutto. Ma da allora pensavo al Natale, quando si avvicinava, con uno strano malumore, con una anomala paura. Come si trattasse d’un nodo, un nodo morto, che a lungo mi ero ostinato a sciogliere, ripetutamente, e che a ogni tentativo diventava invece sempre più stretto.
S’intende che non era stato sempre così. Anzi prima, molto tempo prima, mi succedeva il contrario; non ci sarebbe altrimenti materia di racconto. Se mi chiedessero di nominare i momenti di gioia più pura della mia vita - non quelli più importanti, nemmeno quei rari momenti che forse potrei proporre a mia difesa nel chiedere misericordia - è a qualche lontanissimo Natale che dovrei tornare. Nei ricordi d’una esistenza che è già durata troppo, nulla rifulge con la stessa limpida e misteriosa luce. Non vorrei essere frainteso: la nascita delle mie figlie, per esempio, con lo straordinario sbigottimento che mi aveva preso ogni volta, dentro un mondo che non pareva minimamente cambiato, deve stare su un gradino più alto: ben più alto rispetto alla meraviglia provata da bambino per il mio primo presepio. La realtà è che quell’indicibile meraviglia, - davanti a una grotta fatta di asparagina su cui erano posati pochi fiocchi di cotone, alle rozze statuine di gesso, al tremolare della fiamma d’una minuscola candela - sta fuori da ogni scala della mia vita, come in seguito doveva diventare. Non ne so più nulla: se non che c’è stata.
Così ogni anno cresceva anche l’attesa del Natale: con la stessa magia. Il primo odore dei mandarini, il fumo del caminetto che la domestica stentava a riaccendere, il battere sghembo d’un po’ di nevischio sui vetri, ne erano l’annuncio, portatore d’una lunga, fiduciosa contentezza. Quanto doveva durare, tutto questo? All’incirca sino alla fine della guerra. E anzi la povertà della guerra ne costituiva un ingrediente naturale, necessario...
Capisco adesso, dopo questo esercizio di memoria, che il malumore di cui ho cominciato a dire non è altro che senso di perdita del Natale: d’ogni Natale possibile e d’un intero mondo. Ma sarebbe sbagliato riferire la colpa della perdita solo alla religione dei consumi: che nel frattempo si è instaurata e che certo ne costituisce lo scenario ideale. Tale religione, con le sue mistificazioni, era di là da venire quando io avevo subito quell’antico, rivelatore urto d’una infelicità e d’una solitudine ignote. No, temo (anzi so), la profanazione viene prima: è ben più complessa e sottile, insieme semplice: genericamente mondana; e sono questi suoi caratteri a renderla quasi invincibile. Perdiamo il Natale perché non sappiamo più cos’è, al di là d’ogni contingenza.
Cos’è allora il Natale? Andando a messa, domenica scorsa, ho visto sullo spiazzo davanti alla chiesa dei cartoni sparpagliati, che le automobili dei fedeli, compresa la mia, continuavano a investire. So bene cosa sono quei cartoni: sono il letto di qualcuno che passa le notti fredde e piovose di dicembre all’addiaccio, ridosso al colonnato. Ebbene: è nella sua povera carne viva che si è incarnato il Natale, per sempre; giacché qualsiasi cosa faremo o non faremo a questo sconosciuto - o ad altri della miriade di umani sofferenti - l’avremo fatta o non l’avremo fatta all’unico protagonista del Natale, al re vivente della Festa. È in quei cartoni sporchi e calpestati la culla sacra, la mangiatoia di Betlemme - la stessa che mi toglieva il fiato nei presepi della mia infanzia. Pensarlo mi dà, dopo tanti anni, una specie di conforto: quasi che il Natale non sia del tutto perduto, quasi che alla mia età si possa ancora provare a trovarlo. E mi viene da ricordare una frase che mia madre ripeteva sempre più spesso, negli ultimi non facili anni della sua vecchiaia: «Gesù ci sia per tutti».
(da Avvenire del 22 dicembre 2008)
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LA FRASE DEL GIORNO
Mossi dal pensiero che esse non procacciano alla moltitudine un qualunque benessere cristiano di anima o di corpo - rispose quel signore - alcuni di noi si danno attorno per raccogliere un tanto da comprare ai poveri un po' di cibo e un po' di carbone. Scegliamo quest'epoca, come quella in cui il bisogno è più acuto e l'abbondanza rallegra.
CHARLES DICKENS, Canto di Natale
Il 9 dicembre due degli eterni candidati al Premio Nobel per la Letteratura, il peruviano Mario Vargas Llosa e l’italiano Claudio Magris, si sono confrontati a Lima, nella sede della Biblioteca Nazionale del Perù, sul tema a loro caro: la letteratura. La conferenza-dibattito “Romanzo, cultura e società” era organizzata dal’Istituto italiano di Cultura.
I due scrittori concordano: i migliori romanzi non nascono dalla ragione, ma dal lato oscuro e irrazionale che ci portiamo dentro in quanto esseri umani. Magris ha parlato di due modi di scrivere: “con la mano” e “con la testa”. Gli scrittori che appartengono al primo genere sono i migliori, perché in essi abita il genio; i secondi invece si elevano con la loro intelligenza.
Vargas Llosa ritiene che un romanzo si scriva “con la totalità umana”, pur riconoscendo che “dalla parte oscura e nascosta della sua personalità, che talora richiama demoni e fantasmi” deriva una vivacità che arricchisce la sua opera. Il romanzo si scrive dunque con la ragione e i fondi oscuri dei quali non siamo totalmente coscienti; i saggi invece richiedono “un grande sforzo di comprensione razionale”.
Magris, a proposito della costruzione del tempo nella letteratura, paragona il lavoro dello scrittore contemporaneo nel ricomporre questo tempo frammentario al filo di Arianna che permise a Teseo di uscire dal Labirinto. Vargas Llosa giudica il tempo letterario un puro artificio, “mai arbitrario però, solo necessario alla costruzione della trama”, essenziale comunque alla buona riuscita o all’insuccesso di un’opera.
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Fotografia © Mundiario
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LA FRASE DEL GIORNO
Non importa quanto sia effimero, un romanzo è qualcosa, mentre la disperazione non è nulla.
MARIO VARGAS LLOSA