Il poeta Andrea Zanzotto nasceva a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 ottobre di cento anni fa. Allievo di Diego Valeri all’università di Padova, approfondì grazie a lui lo studio di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé. Insegnante a Valdobbiadene, Motta di Livenza, Treviso e Vittorio Veneto, emerse nel 1950 grazie a un concorso per inediti: le poesie saranno pubblicate l’anno dopo con il titolo Dietro il paesaggio. Nel 1954 Elegia e altri versi, nel 1957 Vocativo e nel 1962 IX Ecloghe segneranno il suo periodo più felice, consolidando la sua fama e il suo stile ormai vicino alla neoavanguardia.
Non è facile la lettura di Zanzotto: l’angoscia esistenziale si trasforma in un linguaggio magmatico che a volte si avvale delle tecniche di accostamento surrealiste e a volte degrada in un linguaggio sgradevole a rispecchiare la condizione di deterioramento della realtà interiore, “oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua miseria di fatto grammaticale” come scrive Dal Bianco. Zanzotto si bilancia tra i due estremi che ha indicato come sue fonti di ispirazione: da un lato il Mallarmé di Un colpo di dadi non abolirà mai il caso che “fa esplodere” il linguaggio, dall’altro l’Artaud che con il suo teatro sconvolgeva e coinvolgeva gli spettatori: il testo come “spostamento, slogamento, lacerazione di elementi corporei”. Le due poesie scelte testimoniano questa nascita, riconoscimento e fondazione interiore dell’io – percorso difficoltoso, perché al soggetto, nella ricerca di ciò che è esterno, si antepone un non-io. Il titolo della seconda, Ineptum, prorsus credibile, divisa in due fasi, lunare e solare, è un’antica sentenza dell’apologetica cristiana: il messaggio evangelico rivendica la sua superiorità rispetto al razionalismo pagano in quanto “stolto, quindi credibile”
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IO ATTESTO
Non a te nudo amore.
Non a te nudo monte
s’indirizza lo stelo d’oro
che la mia penna proietta nella sera.
In neon i lampi s’ingigliano.
Deneb – e la siringa nel nido d’acqua sterile.
Scandalo e campane
nella tetra città sotto monte.
Monte: ore dall’occhio d’osso
larghissime versi,
sapore stabile d’erbe, manto d’erbe,
miraggi amareggianti di fontane.
Vedi il fiore marcito in un riflesso.
Crolla sulle bandiere sulle piazze
la tua luce, di monte, luce volta
altrove,
il tuo peso il tuo canto
non ascoltato
non abitato.
Vedi il fiore in un brivido, surrexit.
Canfora e sangue da me
torpore, pavimento.
Altrove
io sordamente attesto,
io discendo dal mondo.
Il mio domani.
Tu (monte) distinto dal palpito
dei semafori incerti,
dio di deserti e di pieghe e di sere…
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INEPTUM, PRORSUS CREDIBILE
I.
Perché questa
terribilmente pronta luce
o freddissimo sogno immenso
su cui trascende
perpetuo vertice il sole,
da cui trabocchi tu, tu nella vita?
Non ha mai fondo questa nascita
mai fondo questo squallido prodigio,
no non dici, ma stai nella luce
immodesta e pur vera
nella luce inetta ma credibile,
sospinto nella vita.
Nasci oggi col sole con la ferma
virtù che di tensioni
supreme accende
le legioni dei monti,
nella sua bocca pura
ti porta l’azzurra vita,
debole e molle stilli dall’azzurro,
debole
bianca lacrima sporgi
nel grumoso abbagliante mattino;
attraverso l’autunno
ecco il tuo segmentarti
in sale e istanti
in memoria e sapore
Sangue e forma, stoltezza e trionfo,
gemito offerto alle chiare
vagabonde uve,
occhio nuovo al geranio allo scoiattolo.
Ma freddissima e immensa
sta la gloria in excelsis
oltre il grigio spigolo del mondo;
e gode di tutto il suo peso fulgente
e avanza il sole col passo precario
e audacissimo là dove la mente
non può seguirlo che a morirne.
II.
Chi, luce, a te mi conferma,
chi alla sostanza al tangibile, al folto?
E la salvia finezza sull’orlo degli orli
dei monti, dove odora?
Dove i fiori scolorano al desco della luna?
Conversione di viscere
sole mutato in luna
conversione delle erbe e del respiro,
io sono già a riposo percorso dal casto
gesto di Diana, da dolenti barbagli
di dalie e larve.
E’ tramonto od è luna
e in aumento perpetuo
o in perpetuo decrescere è il sole?
Vuoto di ragnateli
per valli e fessure,
vuoto di nascita e sangue.
Acqua e che verbo petroso
deponi ai piedi di questi monti,
colli e che verde spietato
rivelate ad un fuoco
disuguale e nefasto
o – è lo stesso – ad un fuoco
equilibrato e acuto
contro il muro ch’io piango; e alza il muro
sé dalla stanca testa
stanca di nascere e nascere
nell’atroce gemmante vita.
(da Vocativo, 1957)
Altre poesie di Andrea Zanzotto sul Canto delle Sirene:
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LA FRASE DEL GIORNO
Che cos’è la poesia se non un insieme di echi, di voci che restano nell’aria, o in noi? E noi, quasi senza accorgercene, le ripetiamo. Ma ripetendole con la nostra voce, in qualche modo le cambiamo.
ANDREA ZANZOTTO
Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011), poeta italiano tra i più importanti del secondo Novecento. La sua poesia, che scava profondamente nella materia linguistica, è legata alle tracce e alle memorie del suo paese natio: "Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio”.