Ricorre il centenario della nascita del poeta cubano Cintio Vitier. Nacque infatti il 25 settembre 1921 a Cayo Hueso, in Florida. Crebbe a Cuba, dove si laureò in Diritto Civile. All’Università conobbe la poetessa Fina García Marruz, che sposò e che fu sua compagna per tutta la vita. Compito del poeta, secondo Vitier, è dare un nome nuovo, immediato e necessario alla cose, in un dialogo continuo e angoscioso con la realtà: andare al di là del limite formale per cercare la vera essenza. Dare nome a una cosa significa farla esistere, e questo in poesia può accadere solo arrivando alla radice del linguaggio, come si può apprezzare nelle due poesie proposte, un inno alla parola, unico mezzo che può condurre il poeta nella tana del nulla per raggiungere finalmente quella pienezza che però rimane irraggiungibile, solo e continuamente desiderata.
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ULTIMO CANTO NUZIALE
Ma se infine vieni, spoglia
dei tuoi fiori nuziali, nell’ora
in cui tutto il mondo si disfiora
e lo sguardo di cenere si copre;
se allora, con la bocca gelata
dal tramonto postumo che divora
ogni illusione e fatalmente incorona,
se mi dici all’orecchio: sono il nulla,
ti dirò grazie di lasciarti vedere
e abbracciarti nuda, d’essere mia
seppure nell’istante che ti perdo;
e dormirò nel letto che il mio cuore
ha fatto, sognando che la morte
è il tuo ultimo velo, poesia.
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IL VOLTO
Ti ho cercato nella scrittura degli uomini che ti hanno
amato. Non miravo alla lettera, ma volevo sentire la
voce che a volte miracolosamente passa attraverso;
ascoltare come loro, vedere coi loro occhi.
Volevo esser loro, viverli, per vederti.
Eri lì, certo; ma sempre dopo, come le parole di una poesia;
imprendibile come il centro di una melodia; disperso,
come i petali d’un fiore che il vento ha strappato.
E più m’inoltravo nella soave, ardente frenesia del boschetto,
più ti allontanavi. Eri quel luccichìo di foglia
o d’ala? Eri quel lungo rumore, o sibilo? Quel silenzio,
quei massi d’un tratto così pallidi?
Eri tutto questo, certo; ma come ricomporti, pezzo a pezzo,
da luccichìi, rumori, pause? Stavi dietro, respirando
e brillando intero: astro che loro avevano visto di
fronte, o intravisto nella nebbia o cercato come io ti
cercavo, e allora tutto ciò che mi restava in mano era
sempre la notte del desiderio, il tremito della speranza.
Ti cercai nei paesaggi vergini d’ogni alfabeto, dove nessuno
è sceso a mettervi un sudario, e che stanno in palmo
di mano a Dio come reliquie: lo sguardo nuziale
delle cordigliere della Sierra o il puro idillio pensante
della Hanabanilla,
e quella sera, dal belvedere di San Biagio, come
nel primo vaporoso mattino del mondo,
e quella notte, sotto l’aspra e dolce stellata dell’Escambray,
sul capo di Cristo giacente che guarda il Padre
viso a viso: la conca dell’occhio della roccia, la narice
e le labbra di roccia, i capelli e le barbe di alberi enormi
e innocenti.
E certo stavi lì; ma un velo ci separava, sottile e insuperabile.
Nel respiro della natura, sempre lontana, sentivo
il tuo silenzioso richiamo e dono, ma non potevo rispondergli,
perché eri e non eri lì, il tuo esser diffuso
era un indicarmi un luogo altro che non sapevo trovare;
me ne tornavo eccitato e triste, il raggio di grazia
scivolato di mano, la gloria soave che ripiomba in petto
e si dissolve.
E anche ti cercavo sempre in me stesso. Non eri forse del
mio lignaggio, del mio sangue? Non eri in qualche
modo me stesso? Non mi bastava infatti calarmi nella
memoria per riplasmarti, nei sapori più segreti, come
l’orfano che al buio tasta i lineamenti della madre?
Ma è davvero possibile ricostruire un’alba? E poi, non
ero io stesso il maggior ostacolo? Quella continua coscienza
di una perdita, di una caduta, di un impossibile,
non era proprio quanto sempre m’impediva di
afferrare la tua realtà?
Ti ho cercato senza tregua, tutta la vita, e ogni volta più
ti travestivi, lasciando mettere al tuo posto grottesche
simulazioni, immagini di vuoto e di vergogna.
Diventavi l’enigma di una follia, un banale quiz, e più non
sapevamo chi eravamo, da dove venivamo, il sapore
dei cibi del corpo e dello spirito.
Invece oggi finalmente ti vedo, volto di patria mia! È stato
semplice come aprire gli occhi.
So che la visione presto cesserà, sta già svanendo, e che
l’abitudine minaccia di nuovo di invadere tutto con le
sue vaste mareggiate. Perciò mi affretto a dire:
Il volto vivo, mortale ed eterno della mia patria è nel volto
di questi uomini umili che son venuti a liberarci.
Io li guardo come uno che beve l’unica cosa che può saziarlo.
Li guardo per riempire l’anima di verità. Perché
essi sono la verità.
Perché in nessun libro, in nessuna poesia né paesaggio né
coscienza né ricordo, ma in questi contadini, si
verifica la sostanza della patria come nel giorno della
resurrezione.
6.1.59
(da Testimoni, 1968 - Traduzione di Nicola Licciardello)
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Altre poesie di Cintio Vitier sul Canto delle Sirene:
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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia è sempre pura, ed è sempre sociale. Ed è sempre rivoluzionaria, sebbene l’ideologia del poeta non lo sia.
CINTIO VITIER
Cintio Vitier (Cayo Hueso, Florida, Stati Uniti, 25 settembre 1921 – L’Avana, 1° ottobre 2009), poeta, narratore, saggista e critico letterario cubano. Nella sua opera, influenzata dal poeta nicaraguense Ernesto Cardenal: la parola si fa veicolo di conoscenza, alla ricerca del significato ultimo dell'essere e delle cose.