DINO BUZZATI
GIUGNO 1947
Che tempi beati, quelli, si dice, non torneranno mai più; e non perché oggi si sia miseri, o malati o afflitti da altre sciagure. Bellissimi sembrano gli anni lontani perché allora si era più giovani e la riserva delle speranze verosimili era molto più grande mentre adesso si è assottigliata e il futuro per quanto lungo possa essere non conterrà in alcun modo le immense cose che si erano sognate. Ma io mi chiedo: erano davvero felici? Non lasciatevi suggestionare dalle apparenze. Pensateci su bene. Cercate di ricordarvi, a titolo di campione, uno di quei giorni lontani, uno dei migliori, anche, se volete, specialmente adatto a simboleggiare la felicità. Rivivetelo nella memoria ora per ora, provate a localizzarne il punto migliore. Un giorno di vacanze, per esempio, in alta montagna. Svegliati che il sole era già alto, vi ricordate?, e batteva sulle grandi pareti. Scesi a far colazione all’aperto, pensavate alle prossime ore, alla gita dell’indomani, alla ragazza che tra poco sarebbe comparsa, con cui andare a fare il bagno nel lago. Proprio di queste banalità sono fatte le antiche gioie. Poi lei veramente è comparsa, solo che si attardava un poco e voi invece avevate premura di andare subito al lago, altrimenti non avreste fatto in tempo. Non in quel punto dunque la felicità, ma un poco più tardi. Eppure anche più tardi, quando eravate con lei in riva al lago, già il desiderio correva avanti, anticipando la vera gioia. D’ora in ora, questa la verità, si correva dietro a qualcosa. E neppure il giorno successivo ci fu l’ora tanto desiderata; all’alba eravate impazienti di essere all’attacco della parete, qui di aver superato il punto più difficile, poi di essere in cima, poi di aver compiuto felicemente la discesa, e discesi si sarebbe voluto essere già al rifugio, e al rifugio nasceva una strana amarezza come quando ci si accorge che una cosa bella è passata. E soprattutto, in ogni istante della giornata, anche nei periodi più placidi, una specie di ansia, una aspettazione dell’indomani, una impazienza. D’ora in ora sospinti con la sensazione che fermarsi è impossibile, che il buono ci aspetta più avanti e conviene affrettarsi. Così di giorno in giorno, mese in mese, anno in anno, senza la più piccola pausa, a perdita di fiato. Ed eccoci finalmente qui e siamo sempre gli stessi, non ci sono state interruzioni né fratture, si tratta sempre della stessa corsa per cui partimmo giovanetti, puntando sull’indomani. A quei tempi lontani dunque, che ci piace ritenere felici, ci lega l’ininterrotta progressione delle ore; le quali non è vero che un dì fossero rosa o celesti e adeso grigie, bensì sempre le stesse pressappoco, fatte in modo che standoci dentro non sembrano nulla di speciale, mentre a guardarle dal di fuori, quando si sono fatte lontane, splendono misteriosamente.
(da In quel preciso momento, Neri Pozza, 1950)
Leggendo questo breve racconto di Dino Buzzati ho pensato subito al paradosso di Achille e della tartaruga, ideato da Zenone di Elea, che qui riporto nella bella descrizione fatta in Altre inquisizioni da Jorge Luis Borges: “Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla”.
Dunque corriamo sempre, inseguiamo di continuo la felicità, ma essa si ritrova sempre un passo avanti a noi. C’è un certo cinismo, sì, ma velato da uno sguardo malinconico, cioè dolorosamente dolce, come quella sensazione provata al rifugio, l’amarezza per una festa finita, un po’ come ci si sente la domenica sera con il lunedì lavorativo incombente e la stanchezza per il week end.
Ci dobbiamo abbattere, allora? Commiserarci? No, continuiamo a vivere il momento, a lasciarci trasportare nel tempo considerando però che Buzzati su una cosa ha ragione: la felicità è un susseguirsi di desideri.
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Disegno di Dino Buzzati
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LA FRASE DEL GIORNO
Non credere, amico mio, che l'uomo sia capace di sentire tanta felicità quanta ne può concepire; c'è nel desiderio e nell'immaginazione meno forza che nella sensibilità.
SULLY PRUDHOMME, Diario intimo
Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.