GUIDO GOZZANO
IL NATALE DI FORTUNATO
DEAN MORRISSEY, “SCROOGE OUTSIDE HIS LONDON BUSINESS”
Oggi che l’ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi e di malefizi. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che ascoltavo dalla cara bocca d’una fantesca defunta, in altri Natali lontani, quando ero piccolo come voi, miei piccoli amici.
La buona vecchia raccontava ed io fissavo attraverso i vetri il cielo bigio e la città invernale e la mia fantasia s’attendeva di veder rosseggiare la tunica di Gesù fra le rotaie dei tramvai, sotto il bagliore delle lampade elettriche... Quando Gesù veramente compariva su questa terra e lasciava la tunica per travestirsi e confondere i peccatori e confortare gli oppressi, viveva in un paese lontano un contadino rimasto vedovo con molti figli troppo piccoli ancora per guadagnarsi la vita.
Era la vigilia di Natale e Fortunato – così si chiamava il pover’uomo – stava sulla porta di casa, pensoso ed inquieto. Non aveva danaro, non aveva lavoro, né sapeva come sfamare le sue creature. Udiva a tratto, dall’interno della casa, lo strillare dei bimbi e si chiudeva gli orecchi e chinava il capo sulle ginocchia, col cuore spezzato.
– A che meditate, buon uomo? Perché siete così triste?
Fortunato alzò il viso sussultando e vide uno sconosciuto dinnanzi a sé.
– Signore, se sono triste, non è senza ragione; i miei bimbi hanno fame; e non c’è in casa un tozzo di pane, non ho lavoro e non so come fare!
– Se voi voleste lavorare per me, vi pagherei lautamente.
– Non domando di meglio, signore!
– Sta bene. Andate domattina a falciare l’erica sulla brughiera e al tramonto verrò a pagarvi.
– Voi dimenticate che domani è Natale, il giorno più santo dell’anno. Comincierò dopo, con tutto lo zelo.
– Allora non c’intendiamo... Comincio a dubitare che siate un simulatore e che non abbiate quel gran bisogno che dite.
– M’è testimonio Iddio che muoio di fame!
– Fate allora ciò che vi dico.
In quell’istante Fortunato intese i gemiti dei bimbi che dall’interno della casa imploravano disperati.
– Sia! Farò come voi volete, per amore dei miei figli.
E Dio, che vede, perdonerà!
– Sta bene. Trovatevi domani sulla brughiera e al tramonto sarò a pagarvi.
E lo sconosciuto disparve.
L’indomani Fortunato s’alzò di buon mattino, fece le sue preghiere come di costume, intinse le dita nell’acqua benedetta, si segnò con un lento segno di croce, esitò ancora incerto, poi si decise, prese la falce e andò sulla brughiera. Ed eccolo a tagliare l’erica secca.
Lavorò tutto il giorno, mentre dal villaggio veniva sul vento, or sì or no, l’armonia osannante delle campane.
– Dio che vede mi perdonerà...
E proseguiva il lavoro e accumulava fasci su fasci, pregando sommessamente.
Era un Natale senza neve, gelido e sereno. Il sole declinava all’orizzonte in un cielo acceso e Fortunato depose la falce, si sedette stanco sopra una pietra, in attesa.
Ma lo sconosciuto non giungeva.
Fortunato cominciava ad inquietarsi, quando intese un crepitio e vide nell’ombra del crepuscolo un vivo bagliore; si volse, balzò in piedi e vide che i fasci dell’erica divampavano crepitando. S’adoperò invano per domare le fiamme; in pochi secondi l’arido sterpame era in cenere.
– Oh! misero me! Ho faticato tutto il giorno a stomaco digiuno, ho profanato un giorno santo, ed eccomi a mani vuote, più miserabile di prima.
– Non desolarti, buon uomo! Non desolarti così!
Fortunato si volse e vide nell’ombra un altro sconosciuto che lo fissava dolcemente.
Ed egli gli raccontò la sua disavventura.
– Ho avuto torto, lo riconosco; ma i miei figli morivano di fame... Ma più della fame, più della vana fatica, mi duole d’aver profanato questo giorno solenne...
Lo sconosciuto gli prese una mano, lo fissò a lungo, gli disse con voce soave:
– Ebbene, datevi pace. Vi pagherò io la giornata e assai più lautamente. Andate a casa e troverete il compenso. Ma adoperate pel meglio la vostra fortuna; né la casa vostra, né la vostra borsa si chiudano mai dinnanzi alla sventura...
E lo sconosciuto disparve.
Fortunato pensò d’aver male inteso, tanto la promessa era bella, e ritornò verso casa con ansia frettolosa. Giunto in vista dell’abitazione, s’arrestò sbigottito, soffregandosi gli occhi, palpandosi, credendo di sognare.
La misera capanna non c’era più, ma traspariva fra gli alberi una bella casa, dalle finestre luminose nella notte serena. Sulla porta l’attendevano i suoi figli festanti. Lo presero per mano, lo condussero in una sala dov’era imbandita una sontuosa mensa natalizia.
Ad una parete, sul damasco azzurro, erano intrecciati la zappa, il bidente, i suoi attrezzi di contadino con in mezzo la croce di legno della preghiera consueta.
Fortunato piegò le ginocchia dinnanzi a quel trofeo in muta adorazione verso il prodigio divino.
Da quel giorno Fortunato cambiò vita. Acquistò i campi dei vicini, ingrandì i suoi dominii a perdita di vista.
Tutti erano sbigottiti da tanta prosperità e tenevano per certo che Fortunato avesse scoperto un tesoro favoloso.
Egli mantenne la promessa data al benefattore sconosciuto. Nessuna miseria sostava alla sua porta senza essere confortata di parola e di danaro.
Ma col tempo il suo carattere andò mutando; come arriva sovente, la ricchezza gl’indurì il cuore; a poco a poco si dimenticò del suo passato, si circondò di adulatori e di potenti, divenne fantastico, orgoglioso, arrogante.
Un giorno – era il Natale e compiva l’anno dell’incontro miracoloso – egli dava un pranzo di gala e aveva convitato tutti i ricchi e i nobili del paese.
Dalla sala di damasco azzurro era stato tolto il trofeo della croce e delle zappe e confinato nel solaio, come un ricordo vergognoso.
Fortunato aveva ordinato ai servi di non lasciare entrare nessun mendicante nel cortile del castello. Due valletti armati di bastone vigilavano l’ingresso per impedire il passo a chiunque non fosse invitato. Tuttavia, all’ora di sedere a mensa, arrivò nel cortile, non si seppe come, un vecchio mendicante. I servi gli furono sopra respingendolo e malmenandolo.
– Come sei qui, mascalzone? Via! Via! Esci all’istante! – E lo minacciarono coi bastoni alzati.
– Soccorrete un miserabile, in nome di Dio, – disse il poveretto con voce supplicante.
– Oggi no. Ritorna domani.
Ma quegli insisteva e alzava la voce per essere udito dai convitati.
Fortunato intese, s’affacciò alle vetrate, furibondo, perché quei gemiti freddavano l’allegria degli amici.
– V’avevo detto di vietare il passo a quegl’intrusi! Scacciate quel miserabile e se resiste sciogliete i cani.
Furono sciolti i molossi, ma questi lambivano le mani del mendicante, che s’allontanò lentamente scuotendo il capo.
Fortunato ritornò fra i commensali, riprese a bere, a ridere, a celiare.
Poco dopo entrò nel cortile, con gran fragore, una carrozza magnifica tirata da quattro superbi cavalli. E nella carrozza stava un principe, coperto d’oro e di gemme. I servi corsero ad avvertire il signore e tutti s’alzarono da tavola, si protesero alle finestre, guardando curiosi nel cortile.
Fortunato s’avanzò verso la carrozza, col cappello in mano, inchinando fino a terra lo sconosciuto; lo pregò di fargli l’onore di discendere e d’entrare nella casa.
– Grazie, – rispose il forestiero, – non discenderò, e non entrerò in casa vostra. Già son venuto poco fa come mendicante e voi mi avete fatto cacciare dai cani. Vengo ora con l’abito e l’equipaggio d’un signore e v’inchinate fino a terra... Accompagnatemi prima in un luogo non lungi di qui, dove parleremo delle cose nostre...
E il principe accompagnò Fortunato nella brughiera dove aveva falciato l’erica il Natale prima.
– Fortunato, Fortunato! Avete dimenticato così bene il nostro colloquio d’or è l’anno? Un anno di ricchezza e di prosperità è stato sufficiente per fare dell’uomo pio un miserabile orgoglioso! La ricchezza improvvisa v’ha inaridito il cuore: che la povertà ve lo rifaccia pietoso e cristiano!
Lo sconosciuto disparve e Fortunato ritornò di corsa al castello.
Ma il castello non c’era più.
Nevicava, nevicava, nel triste crepuscolo di dicembre; fra i tronchi e i rami Fortunato intravide la sua capanna di prima, illuminata dalla triste lucerna ad olio, intese le grida dei bimbi affamati. Castello, servi, oro, mensa, commensali, tutto era scomparso come in un sogno.
Fortunato sentì ripalpitare in cuore una tenerezza pietosa e riprese la via della salvezza e della povertà...
Questo accadeva quando Gesù compariva sulla terra in misteriosi sembianti e visitava le campagne e sostava alle soglie per ammonire gli uomini.
(da Fiabe e novelline, 1914)
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Il Natale è il pretesto che Guido Gozzano (Torino, 1883-1816) prende a prestito per raccontare uno dei vizi umani, quell’ingratitudine che acceca e fa dimenticare da dove si è partiti prima di arrivare agli onori. Capita spesso che i parvenu disdegnino quelli che un tempo erano i loro simili. Così è di Fortunato, il protagonista di questa favoletta che Gozzano indirizza ai “piccoli amici”: da povero a ricco all’’improvviso, riesce a far fruttare la sua intelligenza contadina perdendo però il suo lato umano, arrivando – dopo solo un anno – a scacciare dalla sua sontuosa dimora un povero come era stato lui fino al Natale precedente. E l’accoglienza riservata al principe è un altro aspetto negativo: la servilità verso i potenti, ritenendo di potere in tal modo entrare a far parte della loro cerchia. Il contrappasso finale è il ritorno alla povertà per riportare allo stato iniziale quel cuore buono che la ricchezza ha reso malvagio. Per citare un aforisma di Ludwig Börne “Fa prima la ricchezza a indurire un cuore che l’acqua bollente un uovo”. La morale della favola non può certo che farci piacere: tutti noi, leggendo in questi giorni il racconto di Gozzano, possiamo pensare alla “casta” dei politici e considerare che anche loro, come il contadino Fortunato, hanno smarrito il senso della misura e dimenticato che non è per il loro portafogli che sono stati eletti, ma per rappresentare la comunità dalla quale provengono.
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LA FRASE DEL GIORNO
Nei cuori induriti dal guadagno e dall’egoismo la sublime poesia del Natale non trova eco pietosa.
EVELYN, A veglia
Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – 9 agosto 1916), poeta italiano, fu il capostipite della corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Inizialmente si dedicò alla poesia nell'emulazione di D'Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti, accomunati dall'attenzione per "le buone cose di pessimo gusto". Morì di tisi a 32 anni.