“Per le strade passavano in silenzio slitte e gruppi di uomini.
Sembravano ombre che uscivano dalla neve”.
MARIO RIGONI STERN
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.Oggi, invece della poesia, un canto straziante costituito da una sola parola ripetuta su una melodia che ha qualcosa delle antiche canzoni russe. Non è un canto di guerra, sebbene a una dolorosa vicenda bellica – la Ritirata di Russia del gennaio 1943 - si riferisca, ma un omaggio reso sul finire degli Anni ‘60 dal rivoluzionario direttore di cori Bepi De Marzi. Ascoltandolo, sembra di vedere quella lunga marcia di soldati male armati, male equipaggiati, con i piedi congelati, le barbe ispide coperte di ghiaccio, assediati dalla fame e dal gelo. Avevano abbandonato l’ansa del Don per ripiegare, i russi li avevano accerchiati ma loro non lo sapevano, credevano di trovare gli alleati tedeschi ad attenderli con camion e aerei. Invece il 26 gennaio 1943 arrivarono al sottopassaggio della ferrovia di Nikolajewka e dovettero combattere per uscire dalla sacca e riguadagnare la strada verso l’Italia, verso le case e le famiglie lontane migliaia di chilometri, maledicendo anche chi li aveva mandati in quel macello.
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Sentite che cosa raccontava sulla Stampa del 23 gennaio 1963 Nuto Revelli, che fu ufficiale alpino del Tirano in quella ritirata e poi partigiano: «Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia. Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le maglie che c'eravamo portati da casa nostra al momento della partenza dall'Italia. (…)
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, la temperatura riprese a scendere e ritornò quella degli altri giorni, sui 30° sottozero. Io dormivo in un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una trentina, accatastati uno sull'altro. Con me stavano il comandante della compagnia, tenente Giuseppe Grandi, di 29 anni, di Limone Piemonte, e i sottotenenti Antonio De Minerbi, di Roma, Mario Torelli, genovese, e Raffaele De Filippis, di Campobasso. Verso l'una sentimmo gli scoppi vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, ma eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era iniziata la battaglia per Nikolajewka. (…) Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il gelo si inceppavano.
Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati. Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli, rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina". (…)
Verso le 18, l'enorme colonna, superato convulsamente il trincerone della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Non si sapeva dove alloggiare le centinaia di feriti, perché tutte le case erano invase dagli sbandati oppure occupate dai soldati russi. Anche per i sovietici, sopraffatti dalla massa enorme di italiani piombata sulla città, esisteva il problema della sopravvivenza. Anche loro erano provati dai combattimenti, con molti feriti, paralizzati come noi dalla temperatura a 30° sottozero. (...)
In questo ambiente, in certi settori della città si stabilì quasi una tregua forzata. Lo scrittore Mario Rigoni Stern, allora sergente maggiore della 55ª del "Vestone", entrò in un'isba occupata da soldati russi. Aveva fame. Una donna gli porse un piatto di latte e miglio. Rigoni Stern mangiò sotto lo sguardo dei sovietici, poi ringraziò e uscì.
Lo sbarramento principale era stato superato. Camminammo ancora per cinque giorni e cinque notti, nel freddo polare e nella tormenta, incontrando diversi centri di resistenza nemici, sotto i continui attacchi della caccia sovietica. I piloti russi volavano indisturbati: mai, dall'inizio della ritirata, era comparso anche un solo aereo italiano, neppure per cercarci. In testa continuò a marciare la "Tridentina" , seguita dalla colonna ininterrotta degli sbandati che si allungava nella steppa per una profondità di circa 30 chilometri.
Il 31 gennaio, presso Wosnessenoeka, trovammo pochissime ambulanze con il generale Gariboldi, comandante dell'Armir. Caricammo sui veicoli i feriti più gravi. (…) Come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti della sua armata. Con noi c'era anche suo figlio, sottotenente del 5° Alpini. (…)
Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La battaglia venne combattuta e vinta dalla “Tridentina”, ma anche la "Cuneense", la "Julia" e la "Vicenza" contribuirono con il loro sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d'Armata Alpino. (…) I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e con odio degli "alleati" tedeschi. (…) Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il 9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione "Tirano" e ci parlò della tragedia e della ritirata: "È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del 1915"».
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Ecco perché quella parola è ripetuta allora: come un monito per i vivi, come una memoria per quei fratelli rimasti nella neve e poi, quando la neve si è sciolta nel breve inverno ucraino, nei campi di girasoli. Il mantra di chi è tornato dall’orrore, da una moderna anabasi nell’inferno di ghiaccio: come recitano i versi di una poesia di Nelson Cenci, anch’egli tenente in quell’epica ritirata, “La pista si è fatta di stelle / e cristalli di luna si spengono / su misere croci senza nome”.
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LA FRASE DEL GIORNO
Qualcuno ci aveva detto di andare oltre ma il nostro cuore ci ha portati qua. Si avanzava per andare a baita. Allora sì che abbiamo lottato per la nostra Italia, per le nostre valli, i nostri campi, le nostre donne.
MARIO RIGONI STERN, Epoca, 28 giugno 1959