Poiché dispongo di input ibridi, ho accettato volentieri e con curiosità la proposta di comporre anch’io un’«antologia personale», non nel senso borgesiano di autoantologia, ma in quello di una raccolta, retrospettiva e in buona fede, che metta in luce le eventuali tracce di quanto è stato letto su quanto è stato scritto. L’ho accettata come un esperimento incruento, come ci si sottopone a una batteria di test; perché placet experiri e per vedere l’effetto che fa. Volentieri, dunque, ma con qualche riserva e con qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo: ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più dell’aver io condotto per trent’anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingeriti; perciò l’esperimento è un po’ pasticciato, e i suoi esiti dovranno essere interpretati con precauzione.
Comunque, ho letto molto, soprattutto negli anni di apprendistato, che nel ricordo mi appaiono stranamente lunghi; come se il tempo, allora, fosse stirato come un elastico, fino a raddoppiarsi, a triplicarsi. Forse lo stesso avviene agli animali dalla vita breve e dal ricambio rapido, come i passeri e gli scoiattoli, e in genere a chi riesce, nell’unità di tempo, a fare e percepire più cose dell’uomo maturo medio: il tempo soggettivo diventa più lungo. Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un’abitudine gratificante, una ginnastica mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti di tempo, e una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente; leggeva «stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi» (Deut. 6.7); si faceva cucire dal sarto giacche con tasche larghe e profonde, che potessero contenere un libro ciascuna.
Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate; i tre (un ingegnere, un medico, un agente di borsa) si volevano molto bene, ma si rubavano a vicenda i libri dalle rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. I furti venivano recriminati pro forma, ma di fatto accettati sportivamente, come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo. Perciò ho trascorso la giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata, ed in cui i testi scolastici erano in minoranza: ho letto anch’io confusamente, senza metodo, secondo il costume di casa, e devo averne ricavato una certa (eccessiva) fiducia nella nobiltà e necessità della carta stampata, e, come sottoprodotto, un certo orecchio e un certo fiuto. Forse, leggendo, mi sono inconsapevolmente preparato a scrivere, così come il feto di otto mesi sta nell’acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto. Mi sembra onesto dirlo chiaramente, in queste «istruzioni per l’uso» della presente antologia.
(Dalla Prefazione a “La ricerca delle radici”, Einaudi, 1981)
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Scelta stravagante questa del Ministero della Pubblica Istruzione per l’analisi del testo all’esame di maturità 2010. Non uno dei celebri scritti di Primo Levi, non un brano da “Se questo è un uomo”, da “La tregua” o “La chiave a stella”; e neppure una delle sue poche poesie. No, una prefazione a un’antologia delle proprie letture. Come scegliere la classifica stampata dell’hit parade invece di ascoltare la musica.
Nel 1981 Giulio Bollati dell’editrice Einaudi invitò alcuni scrittori a raccogliere un’antologia degli autori ritenuti più importanti per la propria formazione. Solo Primo Levi rispose, rivelando la sua eterogenea cultura di enciclopedico e curioso lettore: trenta autori che coprono un arco di trenta secoli: da Omero a Conrad, da Darwin a Saint-Exupéry. E poi Babel’, Rigoni Stern, il Libro di Giobbe, Celan, Marco Polo, Rabelais, Lucrezio… Tutti antologizzati con un breve cappello informativo. Italo Calvino su “Repubblica”, l’11 giugno 1981 recensiva così: “La qualità principale del Levi antologista è quella di stabilire relazioni tra i testi più eterogenei”.
E ancora Primo Levi nella Prefazione: “Gli autori non sono disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale delle antologie, e neppure sono raggruppati per affinità di argomento. Ho seguito approssimativamente la successione in cui mi è accaduto di conoscerli e leggerli, ma spesso ho ceduto alla tentazione del contrasto, come per inscenare dialoghi trans-secolari: come per vedere in che modo due vicini possano reagire fra loro, che cosa possa avvenire all'interfaccia (per esempio) fra Omero e Darwin, fra Lucrezio e Babel', fra Conrad il marinaio e Gattermann il chimico prudente. A Giobbe ho riservato d'istinto la primogenitura, cercando poi di trovare buone ragioni per questa scelta”.
L’idea principale dunque era quella di partire da ciò che un autore ha letto per arrivare a ciò che un autore ha scritto. Geno Pampaloni a proposito di quest’antologia commentò: “Primo Levi ci dà molto di più di quanto sembra offrirci”. Infatti, Levi ci dà una chiave di lettura dei suoi testi e della sua esistenza già nel titolo. La ricerca delle radici. Per questo motivo nella Prefazione parla di “input ibridi”. Conciliare la necessità di trovare un legame identitario con la vocazione ad aprirsi, a condividere. Ecco allora l’ebraismo e la sua riscoperta dopo Auschwitz, la pressante costituzione di una patria comune al di là della Diaspora. Ecco anche la casa torinese dove lo scrittore nacque, abitò e morì, l’ippocastano “vicino di casa” di Corso Re Umberto che “ha la mia età ma non la dimostra. / Alberga passeri e merli, e non ha vergogna, / in aprile, di spingere gemme e foglie, / fiori fragili a maggio, / a settembre ricci dalle spine innocue / con dentro lucide castagne tanniche”.
E dunque si potrebbe parafrasare un noto proverbio: “Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”. Ognuno di noi ha le sue preferenze, ha i suoi testi prediletti: la mia antologia comprenderebbe Omero, la Divina Commedia, Don Chisciotte, Conrad, Hemingway, Fitzgerald, Borges, Buzzati, Rigoni Stern e moltissimi poeti… Ma anch’io, nel mio piccolo dilettantismo, posso dire con Primo Levi: “Forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto”. Quello che si scrive è la vita…
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LA FRASE DEL GIORNO
Quanto delle nostre radici viene dai libri che abbiamo letti? Tutto molto poco o niente a seconda dell'ambiente in cui siamo nati della temperatura del nostro sangue del labirinto che la sorte ci ha assegnato.
PRIMO LEVI, La ricerca delle radici
Primo Michele Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987), scrittore, partigiano e chimico italiano, autore di racconti, memorie, poesie e romanzi. Arrestato dalla milizia fascista il 13 dicembre 1943, fu rinchiuso nel campo di Fossoli e poi ad Auschwitz. Raccontò la terribile esperienza in Se questo è un uomo, La tregua e I sommersi e i salvati.
2 commenti:
"quello che si scrive è la vita"
(immagine rappresentativa... da tenere presente anche quando si scrive istintivamente...o forse, no?)
Bellissima frase, comunque!
luciana - comoinpoesia
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Il mio tema avrebbe potuto essere in quelle sette parole. Chissà se la commissione avrebbe capito che ne valgono settemila...
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