WISŁAWA SZYMBORSKA
SULLA TORRE DI BABELE
– Che ora è? – Sì, sono felice,
e mi manca solo una campanella al collo
che su di te tintinni mentre dormi.
– Non hai sentito il temporale? Il vento ha scosso il muro,
la torre ha sbadigliato come un leone, il portale
cigolante sui cardini. – Come, ti sei scordato?
Avevo un semplice vestito grigio
fermato sulla spalla. – E un attimo dopo
il cielo si è rotto in cento lampi. – Entrare, io?
Ma non eri da solo. – D’un tratto ho visto
colori preesistenti alla vista. – Peccato
che tu non possa promettermi. – Hai ragione,
doveva essere un sogno. – Perché menti,
perché mi chiami con il suo nome,
la ami ancora? – Oh sì, vorrei
che restassi con me. – Non provo rancore,
avrei dovuto immaginarlo.
– Pensi ancora a lui? – Non sto piangendo.
– E questo è tutto? – Nessuno come te.
– Almeno sei sincera. – Sta’ tranquillo,
lascerò la città. – Sta’ tranquilla,
me ne andrò via. – Hai mani così belle.
– È una vecchia storia, la lama è penetrata
senza toccare l’osso. – Non c’è di che,
mio caro, non c’è di che. – Non so
che ora sia e non lo voglio sapere.
(da Sale, 1962 – Traduzione di Pietro Marchesani)
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È un passato mitologico, è quello della torre di Babele, la costruzione di mattoni che saliva al cielo e che fu causa della divisione dei linguaggi - per punizione divina o per dispersione degli umani nel mondo: “Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Genesi, 11.9). Ma la poetessa polacca Premio Nobel Wisława Szymborska lo trasporta ai giorni nostri: Babele è quando parliamo la stessa lingua eppure non ci capiamo, è l’incomprensione che penetra sottile e mina storie d’amore, matrimoni, amicizie quando non si ascolta l’altro o quando non si vogliono comprendere le sue esigenze, quando ci si attorciglia a difesa del proprio io e non si considera l’altro.
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JACK VETTRIANO, “THE PARLOUR OF TEMPTATION”
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LA FRASE DEL GIORNO
L'incomprensione reciproca e l'indolenza fanno forse più male nel mondo della malignità e della cattiveria. Almeno queste due ultime sono certo più rare.
JOHANN WOLFGANG GOETHE, I dolori del giovane Werther
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