“Io scrivo per non essere incluso”. Fu lo stesso Ennio Flaiano, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, a dare la più precisa definizione di sé. Non un cerchiobottista, non uno dei tanti personaggi che riempiono le cronache di questa Seconda Repubblica. Un liberale in antitesi al fascismo durante gli Anni Trenta e Quaranta e poi un intellettuale inviso sia al PCI che alla DC.
L’esperienza di Flaiano è simile a quella di Dino Buzzati: non schierato politicamente e attratto visceralmente da una città che lo ha adottato: se per il bellunese l’amore fu Milano, per Flaiano, emigrato dalla natia Pescara, fu Roma, dove arrivò bambino. Ne racconta vizi e virtù, ne segue l’evoluzione urbanistica e sociale. Vi morirà nel 1972.
Come Buzzati, è giornalista. Scrive su “Oggi”, “Quadrivio” e soprattutto su “Il mondo” di Pannunzio. E comincia a sviluppare la capacità di sceneggiare la vita, che lo porterà prima al teatro e poi al cinema con Federico Fellini, con il quale collabora a Luci del varietà, Lo sceicco bianco, Otto e mezzo, I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Giulietta degli spiriti. Con Antonioni scriverà La notte.
La sua vena anticonformista risalta anche nella narrativa: il suo primo romanzo “Tempo di uccidere”, esce in pieno neorealismo, nel 1947, ed è una storia surreale di segno etico-politico ambientata nell’Africa coloniale. L’altro romanzo che scrive, quasi trent’anni dopo, “Melampus”, è una fuga dall’Italia in un altrove di sogno, New York, dove i sogni però svaniscono.
La sua inclassificabilità, l’impossibilità di associarlo all’uno o all’altro dei vari schieramenti, è stata anche la sua condanna: dimenticato spesso dai critici, Flaiano non è, a torto, inserito tra i maestri del Novecento: lo si è isolato tra gli umoristi, tra gli aforisti dalla battuta caustica. Invece era e resta un grande scrittore..
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da “TEMPO DI UCCIDERE”, 1947
“Non vedevamo ancora il fiume, ma era là sotto, nella sua valle scavata da secoli e guardata da qualche pigro coccodrillo a caccia di lavandaie. Pensavo di trovare un autocarro per risalire dall'altra parte. Dovevo esservi prima di cena o sciupavo uno dei quattro giorni che m'avevano concesso per trovare un dentista.
Sì, dovevo andarmene. Oltre la valle, nel cielo bianco, appariva il ciglio opposto dell'altipiano. Il fiume aveva scavato attorno alle montagne lasciandole asciutte come ossi. Tra i due cigli correvano chilometri, quanti non so, perché le distanze ingannano con questa luce che disegna le più lontane minuzie: forse cinque o sei. E, oltre il ciglio, la vita calma dei depositi. Ancora avanti, e la parola domenica avrebbe riacquistato valore. Avrei trovato il primo letto con le lenzuola, il primo giornalaio. E un dentista.
Il soldato non voleva cedere. "Aspetti", disse, "passerà qualcuno". Guardai il camion che giaceva con le ruote dentro la scarpata e scossi la testa: non passava nessuno. Era passato soltanto un colonnello, annoiato come un generale. E la petulanza del soldato cominciava a infastidirmi. Essersi salvati insieme non mi sembrava più una buona ragione per mostrarci fotografie, raccontarci i fatti propri, azzardare le solite previsioni sul nostro ritorno in Italia”.
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da “DIARIO NOTTURNO”, 1956
Quando mai uno stupido è stato innocuo? Lo stupido più innocuo trova sempre un'eco favorevole nel cuore e nel cervello dei suoi contemporanei che sono almeno stupidi quanto lui: e sono sempre parecchi. Inutile poi aggiungere che niente è più pericoloso di uno stupido che afferra un'idea, il che succede con una frequenza preoccupante. Se uno stupido afferra un'idea, è fatto: su quella costruirà un sistema e obbligherà gli altri a condividerlo.
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I nomi collettivi servono a far confusione. «Popolo, pubblico...». Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi fossero gli altri.
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Era addetto a leggere articoli e racconti in un giornale letterario. Ricevette una lettera d'amore: non gli piacque ma, con qualche taglio e rifacendo la fine, poteva andare.
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Un tale che si apparta e che si difende a priori, quando cioè nessuno pensa di offenderlo, suggerisce ai suoi nemici l'offesa, l'attentato, perché ammette di temerli. Anche in questo caso è la richiesta che provoca l'offerta.
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da “LA SOLITUDINE DEL SATIRO”, 1973
A proposito di un film di Sordi e Manfredi sull'Africa, che mi è piaciuto per la giustezza di un'osservazione di fondo, questa: l'italiano, nella sua qualità di personaggio comico, è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito. Il Polo Nord non è più serio. La vastità della superficie ghiacciata è eccessiva. A che serve? Perché? Non si può far niente per rimediare? Pensa il personaggio comico italiano.
La savana, la giungla, i grandi spazi dell'Africa: due italiani bastano a corromperli. «Dottore!», «Ragioniere!» Non rinunciano ai loro titoli, guardano i grandi spazi, vi si perdono, li percorrono senza convinzione, dubbiosamente, «Con lei in Africa non ci vengo più» eccetera. Quando due italiani si incontrano per caso all'estero, la loro prima reazione è un gran ridere. «Che fai qui?...» «E tu?» Infatti si suppone che se sono fuori casa è per motivi essenzialmente comici: il lavoro, la noia, una curiosità piena di riserve, le donne, i piaceri eccetera.
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Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? L'età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro verità, noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio agli storici, ai sociologi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri: perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la loro verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell'arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia.
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LA FRASE DEL GIORNO
In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l'arabesco. Viviamo in una rete d'arabeschi.
ENNIO FLAIANO, La solitudine del satiro
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