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lunedì 31 gennaio 2011

Cos’è la poesia? (XIX)


EUGENIO MONTALE

LA POESIA

I

L'angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l'ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
si guardano d'attorno e hanno l'aria di dirsi:
che sto a farci?

II

Con orrore
la poesia rifiuta
le glosse degli scoliasti.
Ma non è certo che la troppo muta
basti a se stessa
o al trovarobe che in lei è inciampato
senza sapere di esserne
l'autore.

(da Satura, Mondadori, 1971)

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L’indagine sull’essenza della poesia approda con Eugenio Montale a una nuova puntata: la poesia è urgenza, è la parola che deve essere detta, che spinge per uscire. E Montale lo dice con il distacco che è proprio di questo nuovo periodo della sua vita – Satura è del 1971 e raccoglie un decennio di versi, segnato dalla scomparsa della cara Mosca – lo dice con ironia, con un linguaggio che spiana i termini della poesia, che sembra svilire la funzione del poeta. Ma ecco che alla fine, appare ancora il poeta-profeta, il rivelatore della parola, l’apparentemente inconscio trovarobe che ha dedicato alla poesia la sua vita: “Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso”, come dichiarò Montale nel 1977.

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Fotografia © Ademir Bacca

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LA FRASE DEL GIORNO
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco /perduto in mezzo a un polveroso prato.
EUGENIO MONTALE, Ossi di seppia




Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), poeta e scrittore italiano, Gli fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura nel 1975 “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”, ovvero la “teologia negativa” in cui il "male di vivere"  si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio.

domenica 30 gennaio 2011

Paul Léautaud, moralista a rovescio


Paul Léautaud era uno spregiudicato scrittore parigino: visse per anni in solitudine in periferia partecipando alla vita dei salotti mondani e alle serate teatrali, recensendo con caustica onestà le rappresentazioni. Nel 1898, quando aveva 26 anni, iniziò un Diario letterario, che tenne fino alla morte, nel 1956. Detti, discorsi, aneddoti si susseguono dipingendo l’universo parigino di inizio Novecento tra usurai, finti nobili spiantati, scrittori da strapazzo, amanti, mariti e mogli tradite, bancarottieri. E Léautaud gira qua e là la sua lama affilata, il coltello della sua ironia, che diventa amaro sarcasmo quando si trova di fronte alla stupidità, strappando massime e sentenze che esprimono il disincanto e l’arguzia, che sanno molto spesso trasformarsi in una autoironia al contempo pungente e delicata, quando la riflessione diventa più intima. Insomma, un “moralista a rovescio” come egli stesso amava definirsi.

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da “PASSATEMPI”

Essere seri in gioventù, si paga, sovente, con una nuova giovinezza in età matura.

Mi alzo, come tutti, la mattina, ma è la sera che mi sveglio.

C’è una poesia nell’oblio come nel ricordo.

La povertà non è un vizio. Perbacco! Un vizio è piacevole.

Non avrei potuto essere un poeta lirico. Non sono abbastanza stupido.

Bisogna scrivere ciò che si è visto, ciò che si è inteso, ciò che si è provato, ciò che si è vissuto.

Succede in amore come in tutto il resto. Quel che abbiamo avuto è niente, è quello che non abbiamo che conta.

Ci sono certe cose che scrivo ma che non direi a voce.

Può darsi che il tradimento sia la caratteristica di un’intelligenza superiore, completamente affrancata da ideologie civili.

Non ho paura a dirlo: una società non è completamente civilizzata se non esiste la coscienza e la pratica dei doveri verso gli animali.

I bei libri tolgono il coraggio di scrivere, dicono. Che sciocchezza! Per me, almeno. Quando leggo un bel libro, il mio spirito si risveglia, le brutte fantasie scompaiono, scrivere mi appassiona più che mai. Quando leggo un libro insulso, prolisso, uno di quei libri che uno qualsiasi, oltre all’autore, avrebbe potuto scrivere, allora perdo l’illusione. Mi dico che quello che scrivo forse non vale di più. I bei libri tolgono il coraggio di scrivere? Come dire che una bella donna toglie il coraggio di fare all’amore.

È curioso: il tono dei libri di una volta mi piace di più che il tono dei libri di oggi. Con questi mi trovo spaesato, e ritrovo negli altri un paesaggio che mi è congeniale.

È curioso il meccanismo mentale di uno scrittore. Mi è capitato di avere dei grandi dispiaceri. Con la mia mania di scrivere tutto, li ho messi sulla carta. Mi sono subito consolato.

Mi trovano immorale, sovversivo, senza rispetto: non dico neppure un quarto, su ogni cosa, di quello che penso.

Mi sono fatto fare una giacca. Il sarto è così bene informato sul mio conto? Non mi ci ha fatto l’occhiello per la decorazione.

È curioso che sia sempre la donna a «concedere i suoi favori» all’uomo. Eppure si tratta di uno scambio di favori!

La vostra amante vi fa delle scenate spaventose. Vi salta al collo e vi graffia. Minaccia di strangolarvi. Vi copre d’ingiurie. Arriva al punto di augurarvi la morte. Vi spia e vi segue dappertutto. Non vi dà respiro. Che uomo fortunato: vi adora!

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Paul Léautaud ritratto da Henri Matisse

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LA FRASE DEL GIORNO
Singolare scrittore! Terminato il manoscritto, il piacere di avere scritto mi basta. Non ho alcuna fretta di darlo alle stampe. Poco ci manca che me lo tengo per me.
PAUL LÉAUTAUD, Passatempi




Paul Léautaud (Parigi, 18 gennaio 1872 – Le Plessis-Robinson, 22 febbraio 1956) è stato uno scrittore e critico teatrale francese. Il suo Journal presenta con forza epigrammatica un'acuta ed inclemente cronaca dei retroscena, non di rado miserevoli, della società letteraria ed artistica di Parigi.


sabato 29 gennaio 2011

Sera d’inverno a Luino

 

VITTORIO SERENI

INVERNO A LUINO

Ti distendi e respiri nei colori.
Nel golfo irrequieto,
nei cumuli di carbone irti al sole
sfavilla e s'abbandona
l'estremità del borgo.
Colgo il tuo cuore
se nell'alto silenzio mi commuove
un bisbiglio di gente per le strade.
Morto in tramonti nebbiosi d'altri cieli
sopravvivo alle tue sere celesti,
ai radi battelli del tardi
di luminarie fioriti.
Quando pieghi al sonno
e dài suoni di zoccoli e canzoni
e m'attardo smarrito ai tuoi bivi
m'accendi nel buio d'una piazza
una luce di calma, una vetrina.

Fuggirò quando il vento
investirà le tue rive;
sa la gente del porto quant'è vana
la difesa dei limpidi giorni.

Di notte il paese è frugato dai fari,
lo borda un'insonnia di fuochi
vaganti nella campagna,
un fioco tumulto di lontane
locomotive verso la frontiera.

(da Poesie, 1942)

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È interessante come gli aspetti giornalieri del paesaggio diventino in breve suggestioni in questi versi che Vittorio Sereni dedica al suo paese natale, Luino, celebre località sulle rive del Lago Maggiore. La commozione del poeta è quella del ritrovare un posto “a misura d’uomo”, un sicuro rifugio dove riparare tra gli affetti dalle caotiche nebbie metropolitane. E già dall’attacco (“Ti distendi e respiri nei colori”) appare chiaro come a Luino possa rasserenarsi l’anima turbata dalle tristezze delle giornate trascorse a Milano.

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Fotografia © Giro.it

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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni filo d'erba ha un suo posto sulla terra da cui attinge vita e forza; nello stesso modo l'uomo ha le radici nella terra da cui attinge la propria fede insieme con la propria vita. 
JOSEPH CONRAD, Lord Jim




Vittorio Sereni (Luino, 27 luglio 1913 – Milano, 10 febbraio 1983), poeta italiano, è il capostipite della variante lombarda del novecentismo poetico, detto “Linea lombarda”. Ufficiale di fanteria, viene fatto prigioniero dopo l’8 settembre 1943. Nel dopoguerra è direttore letterario di Mondadori e cura la prima edizione dei Meridiani.


venerdì 28 gennaio 2011

Per meglio sentirti

 

SERGIO SOLMI

PREGHIERA ALLA VITA

Perché più bruci, per meglio sentirti,
perché sempre il cuor mi divida
il tuo taglio assetato di lama,
perché la notte smanioso
invano a cercarti io mi dibatta
e mi raggiunga l'alba
come una morte amica,
tregua non darmi, mia vita,
lasciami l'umiliata povertà,
le nere insonnie, le cure ed i mali.
Lasciami il delirante desiderio
che si gonfia in miraggi
e il timido sangue che s'agita ad ogni
soffio.

Perché più bruci, per meglio sentire
questo tuo bacio che torce e scolora,
ogni mia fibra consuma al tuo fuoco,
ogni pensiero soggioga ed annulla,
ogni tuo dolce, la pace e la gioia,
negami ancora.

(da Poesie, Mondadori, 1950)

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Laica preghiera questa di Sergio Solmi: una richiesta alla vita non di felicità, onori, gioie, ma della loro privazione, così da proseguire nella febbrile opera di ricerca, nella continua indagine sulla realtà, nell’interrogazione delle cose per poter giungere al loro significato ultimo. Una ricerca che si avvale – sono parole dello stesso Solmi – di “una poesia che inerisca integralmente all' uomo, la cui musica sia il respiro stesso della voce, il cui ritmo sia il gioco stesso dei muscoli, il pulsare del sangue, l' ampliarsi del torace nel respiro. Di una poesia energicamente definita, fatta di parole precise, nel giro delle cui frasi si delinei un sentimento, si accenni a un pensiero appassionato e attivo”.

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Jayant Kerai, “Red”

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LA FRASE DEL GIORNO
E di tanta / vita e tanto dolore / più non affiora / che quel baluginio d’acque lontane, / fondo amaro del sangue, fantasia, / ridente nulla che in sillabe esprimo. 
SERGIO SOLMI, Poesie




Sergio Solmi (Rieti, 16 dicembre 1899 – Milano, 7 ottobre 1981),  scrittore, poeta, critico letterario e saggista italiano. È stato poeta tanto originale quanto radicato nella tradizione italiana nonché felice traduttore. Come critico, si occupò di letteratura francese (Alain, Montaigne, Rimbaud), di paraletteratura e di Giacomo Leopardi.


giovedì 27 gennaio 2011

Laggiù, ad Auschwitz

 

SALVATORE QUASIMODO

AUSCHWITZ

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: "Il lavoro vi renderà liberi"
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

(da Il falso e vero verde, 1954)

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Auschwitz non è tra le pagine più note di Salvatore Quasimodo. Quando scrive questa poesia sono trascorsi già alcuni anni dalla scoperta del campo di sterminio e il discorso del poeta siciliano appare più eloquente che emotivo. Il dolore, l’immenso dolore che si prova ricordando i sei milioni di ebrei passati per le camere a gas dei lager tedeschi, resta vivo e si spera rimanga anche un monito contro l’antisemitismo che purtroppo continua a serpeggiare qua e là per il globo. In un mondo che impara le lezioni della storia, non dovrebbe più essere necessario ricordare le parole di Primo Levi: “Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore”. Non dovrebbe più essere necessario combattere contro i negazionisti che vorrebbero mai accaduto questo orrore, nonostante le testimonianze, nonostante il museo qui evocato dallo stesso Quasimodo: le “reliquie” di quel tempo ci dicono “mai più”. Ed è doveroso ricordarlo ogni giorno, non soltanto il 27 gennaio di ogni anno.

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Fotografia © Jochen Zimmermann

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LA FRASE DEL GIORNO
Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria. La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l'indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l'abdicazione dell'intelletto o del senso morale davanti al principio d'autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un'idea.
PRIMO LEVI, L’asimmetria e la vita




Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968), poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell'ermetismo.  Essenziale ed epigrammatico, ha  temperato gli influssi originari in un linguaggio poeticamente sempre più autonomo, che libera un’intensa sensualità in trepide visioni. Premio Nobel per la letteratura 1959 “per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.


mercoledì 26 gennaio 2011

Il vento della steppa


NELSON CENCI

FRATELLI MIEI

Scendeste, Fratelli, dalle Vostre
montagne di verità e di ghiaccio,
dai boschi, dalle riarse pietraie,
dai Vostri azzurri cieli lontani.
Ma ora un manto di neve copre
il Vostro sonno
e persi si sono gli sterminati
orizzonti di sole.
Ora il vento della steppa
accompagna il Vostro viaggio
e dimenticate voci si alzano
dal soffice silenzio della notte.

O tu Padre che chino ascoltasti
la flebile voce dei moribondi,
che confortasti la loro solitudine
hai udito
questo addolorato suono di campana
che segna la sera?

Destatevi Fratelli e torni la vita
su queste abbandonate croci.
Anche se i giovani sogni
si sono perduti
io Vi cercherò, soldati ignoti:
Vi cercherò nella polvere del tempo,
nei detriti del passato,
nelle dimenticate storie
e racconterò alla notte
la mia tristezza senza più lacrime.

(da Quando scende la sera)

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La ritirata di Russia è uno degli episodi più noti della Seconda guerra mondiale. Il 26 gennaio 1943 le truppe italiane, inviate senza adeguato equipaggiamento nel gelo della steppa russa a sostegno dell’esercito tedesco, dopo dieci giorni di ritirata a piedi dal Don verso Rossosch, sulla neve ghiacciata, con temperature attorno ai -30°, circondate dall’Armata Rossa e assalite dai partigiani ucraini, riuscirono a venir fuori dalla sacca in cui erano rimaste imbottigliate grazie alla sanguinosa battaglia di Nikolajewka: quel giorno gli alpini, guidati dal generale Reverberi, espugnarono il villaggio a colpi di fucile e di bombe a mano, consentendo alla “lunga fila di fantasmi in grigioverde” di sfuggire all’accerchiamento e di oltrepassare le linee nemiche. Da lì i superstiti passarono a Kharkov, dove intrapresero un’altra lunga marcia prima di trovare le tradotte che li avrebbero riportati in Italia.

A ricordare i fratelli caduti nella steppa, gli esausti che si fermavano bocconi nella neve e là rimanevano per sempre, i feriti trasportati sulle slitte, i cappellani che confortavano i moribondi, è Nelson Cenci, tenente di Mario Rigoni Stern, anch’egli ferito durante la Campagna di Russia. Le sue parole, scritte a distanza di anni, sono cariche di un affetto che ora risuona paterno: il ricordo si trasforma in doveroso omaggio, è un modo per far rivivere ancora quei sogni spezzati dall’orrore della guerra come dei fiori di campo recisi dalla falce.

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I Crodaioli di Bepi De Marzi–l’ultima notte
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LA FRASE DEL GIORNO
Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo. (…) Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte fino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare.
MARIO RIGONI STERN, Il sergente nella neve




Nelson Cenci
(Rimini, 21 febbraio 1919), scrittore italiano. Nel 1942 partì per la campagna di Russia con la Tridentina - è il "tenente Cenci" del Sergente nella neve di Rigoni Stern. Dopo la guerra divenne medico e pubblicò memoriali, tra i quali Ritorno, poesie e racconti.


martedì 25 gennaio 2011

Una fiamma d’aperto cielo


GIORGIO VIGOLO

SALMO

O miei piovosi inverni,
umidità delle mie strade antiche,
e voi, chiese grondanti,
cimiteri dentro le nuvole, -
solo a sera una fiamma
d’aperto cielo accende
il sanguigno mattone dei ruderi,
solitario sui prati spenti.

Mia vita, anche tu attendi
sui tuoi colori muti
il salmo dell’ora serale.

(da Conclave dei sogni, 1935)

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Giacomo Debenedetti parlava a proposito di Giorgio Vigolo di “un’ansia profonda di ritrovare quell’armonia increata, preesistente al tempo, a cui le parvenze effimere del mondo paiono segretamente alludere, mentre nel loro aspetto e nella loro vicenda la degradano e tradiscono. Ansia che potrebbe essere filosofica o comunque di natura conoscitiva”.  Quell’ansia mi pare pienamente trasparire in queste strade di Roma, tra i grandi monumenti, tra gli antichi vicoli – Roma è protagonista assoluta della poetica di Vigolo con i suoi scorci, con la sua anima barocca, quella delle chiese evocate in questi versi. La luce del tramonto piomba sulla città come una rivelazione, Vigolo diventa allora il mistico del crepuscolo, fermo a contemplarne la grazia.

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Fotografia © Artemis

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LA FRASE DEL GIORNO
Un aureo giorno / so che lassù risplende: / ma sto pago in quest’ombra.
GIORGIO VIGOLO, Conclave dei sogni




Giorgio Vigolo (Roma, 3 dicembre 1894 – 9 gennaio 1983), poeta e scrittore italiano, esponente della “Scuola Romana”. Le sue poesie hanno un gusto barocco e classicheggiante del paesaggio, soprattutto di quello romano. Profondo conoscitore del Belli, tradusse Maestro Pulce di Hoffmann e le poesie di Hölderlin.

lunedì 24 gennaio 2011

La ciocca del mio ricordo


GUILLAUME APOLLINAIRE

LA CIOCCA RITROVATA

Lui ritrova nella memoria
La ciocca di lei castana
Non par vero ma ti ricordi
Dei nostri due destini strani

Di boulevard de la Chapelle
Del bel Montmartre e di Auteuil
Me lo ricordo mormora lei
Il giorno che ho passato la tua soglia

Vi cadde come un autunno
La ciocca del mio ricordo
E la sorte di noi che ti stupisce
Si sposa al giorno che finisce.

(da Calligrammi, 1918 - Traduzione di Vittorio Sereni)

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Vi sono molte donne ad attraversare la breve vita di Guillaume Apollinaire, stroncato a 38 anni nel 1918 dalla terribile epidemia influenzale nota come “Spagnola”: c’è la torbida Lou dei Calligrammi, c’è Madeleine Pagès, incontrata in treno tra Nizza e Marsiglia, c’è Jacqueline Kolb, la sua sposa, l’ultima. E c’è la prima, Marie Laurencin, che è la protagonista di questa poesia. Il loro incontro fu un colpo di fulmine: fu Pablo Picasso a presentare Marie ad Apollinaire, in una galleria d’arte nel maggio del 1907. Tra alterne vicende il loro amore durerà cinque anni: nel 1909 il poeta si trasferisce da Parigi ad Auteuil, sullo stesso pianerottolo di Marie. Nel 1912 il loro dissidio è insanabile, Guillaume torna a Parigi e un ultimo tentativo di ricomposizione nell’agosto del 1913 fallisce.

Ma, come di tutte le storie, resta il ricordo. Ed è quello che appare una sera, mentre Apollinaire seguita a esaminare la sua vita, in quel confronto tra presente e passato che sono i Calligrammi, sull’onda della profonda crisi esistenziale causata dalla rottura con Marie. Una ciocca di capelli, una di quelle che si tengono nei medaglioni, e la memoria comincia a ricordare.

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Marie Laurencin, “La liseuse”

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LA FRASE DEL GIORNO
L’amore va come quell’acqua fugge / L’amore va come la vita è lenta / E come la speranza è violenta. 
GUILLAUME APOLLINAIRE, Alcool




Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowick (Roma, 26 agosto 1880 - Parigi, 9 novembre 1918), noto con lo pseudonimo di Guillaume Apollinaire, poeta francese sostenitore di una totale libertà formale e di nuovi contenuti frutto dell’indagine dell’inconscio, fu un precursore del Surrealismo. Combattente nella Prima guerra mondiale, fu vittima dell’epidemia di febbre spagnola.


domenica 23 gennaio 2011

Dove l’erba trema

 

ROCCO SCOTELLARO

LA MIA BELLA PATRIA

Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.

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“La patria rappresenta l'insieme nel quale mi riconosco coi miei costumi, le mie abitudini tradizionali di pensiero, di comportamento, la lingua, il mio stile di esistenza; la patria è il paesaggio familiare che mi mantiene in pace, sicuro, a mio agio con me stesso; essa si manifesta come ciò al di là del quale sono perduto, e a nessuno di noi piace essere perduto!” scrisse Jean Cardonnel. Mi piace usare questa sua frase per commentare la poesia di Rocco Scotellaro che propongo oggi. In particolare sottolineo “il paesaggio familiare”, citando Plinio la casa è dove è il cuore, nel caso di Scotellaro il paese natale, Tricarico, borgo arabo-normanno della Lucania, bucolica Arcadia di cui il poeta nella sua breve vita – morì trentenne nel 1953 – fu anche sindaco, sede delle sue lotte per assicurare una vita più degna ai contadini, oggetto delle sue indagini sociologiche sulle condizioni di vita delle popolazioni meridionali. Patria dunque, ma senza preclusioni, se un soffio di vento può portare lontano i semi e farli germogliare altrove.

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 Foglie-derba

FOTOGRAFIA © IIS CARLO BERETTA

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LA FRASE DEL GIORNO
Un uomo percorre il mondo intero in cerca di ciò che gli serve e torna a casa per trovarlo.
GEORGE MOORE




Rocco Scotellaro (Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953), scrittore, poeta e politico italiano impegnato nella lotta per miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini. La sua poesia è caratterizzata da da un'ambientazione pastorale serena, da un'armonia di immagini e visioni che esaltano la vita bucolica.


sabato 22 gennaio 2011

Voze, soave nome

 

CAMILLO SBARBARO

VOZE, CHE SCIACQUI AL SOLE LA MISERIA

Voze, che sciacqui al sole la miseria
delle tue poche case, ammonticchiate
come pecore contro l'acquazzone;
e come stipo di riposti lini
sai di spigo, di sale come rete;

- nell'ombra dei tuoi vichi zampa il gallo
presuntuoso; gioca sulla soglia
il piccolo, con dietro il buio e il freddo
della cucina dove su ramaglie
una vecchia si china ad attizzare;
sulle terrazze splende il granoturco
o rosseggia la sorba; nel coltivi
strappati all'avarizia della roccia
i muretti s'ingobbano, si sbriciola
la zolla, cresce storto e nano il fico -

in te, Voze, m'imbatto nel bambino
che fui, nel triste bimbo che cercava
in terra mele mézze per becchime
buttate, tratto dall'oscuro sangue
a mordere ai rifiuti; nel cattivo celato dietro l'uscio
che godeva d'udirsi per la casa
chiamare da colei che lo crebbe
- e si torceva presso lui non visto,
la povera, le mani e supplicava
che s'andasse con pertiche alla gora.
Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza
guasta,
più nessuno lo cerchi per la casa
vuota,
come in madre in te possa rifugiarsi.

Se l'occhio che restò duro per l'uomo
s'inteneriva ai volti della terra,
nella casa di allora che inchiodato
reca sull'uscio il ferro di cavallo
portafortuna,
sérbagli sopra i tetti la finestra
che beve al lapislazzulo laggiù
del mare, si disseta
alla polla perenne dell'ulivo,

Voze, soave nome che si scioglie
in bocca..

1921

(da Rimanenze, All'insegna del pesce d'oro, 1955)

 

Voze è un borgo che fa parte del comune ligure di Noli, a mezza costa. Camillo Sbarbaro ci torna nel 1921 e si commuove ricordando il periodo passato là – aveva sei anni e sua madre era morta da poco, ad allevare lui e la sorella Clelia ci pensa Maria, chiamata dal poeta Benedetta, la zia sedicenne: “Tua era in casa la sedia cattiva, il posto scomodo: preferenze cui sapevi sempre trovare disarmanti giustificazioni. Ti chiamavi Maria ma il nostro cuore ti chiamava Benedetta… Almeno tu ci resti viva finché viviamo, finché pensarti è inginocchiarci”. Sbarbaro ritrova i suoi ricordi, quei vecchi vicoli, quelle marachelle che combinava, possiamo davvero immaginarlo allora come lo ritrae l’amico Eugenio Montale: un bambino che costruisce barchette di carta e le affida a uno stagno fangoso. Quelle barchette, quelle poesie in questo giorno del 1921 seguono la rotta della memoria, lo stupore è quello della nostalgia, la lacrima che sfugge è per la buona zia, “come madre” in cui rifugiarsi.

 

Veduta di Noli © Alessandro Vecchi

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LA FRASE DEL GIORNO
È vecchio ciò che si è dimenticato. E quello che non si può dimenticare, è accaduto appena ieri. L'unità di misura non è il tempo, ma il valore. E la cosa che ha in assoluto più valore, divertente o triste che sia, è l'infanzia.
ERIC KÄSTNER, Als ich ein kleiner Junge war




Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 30 ottobre 1967),  poeta, scrittore e aforista italiano. Nelle sue poesie seppe coniugare un’osservazione della natura e un’analisi anche introspettiva della psicologia umana con uno stile secco e acuto.


venerdì 21 gennaio 2011

Bisogno d’amore

 

CARL SANDBURG

ALLA FINESTRA

Datemi fame,
o voi dèi che sedete e date
ordini al mondo.
Datemi fame, dolore e mancanza,
chiudetemi fuori dalle vostre porte
d’oro e fama
con vergogna e fallimento,
datemi la vostra più meschina, sfinita fame!

Ma lasciatemi un po’ d’amore,
una voce che mi parli sul finire del giorno,
una mano che mi tocchi nella stanza buia
a spezzare la lunga solitudine.
Nel crepuscolo dello spettro del giorno
che offusca il tramonto,
una piccola errante stella d’occidente
che mi spinga fuori dalle mutanti rive dell’ombra.

Lasciatemi andare alla finestra,
e là guardare le figure del giorno all’imbrunire,
e aspettare, sapendo dell’arrivo di un po’ d’amore.

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“Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili; ma ho bisogno d'amore” scriveva Giacomo Leopardi in Lettera all’Antonietta. Tutti abbiamo bisogno d’amore, è una necessità insita nella nostra umanità, è un desiderio spirituale prima che fisico. Anche il poeta americano Carl Sandburg, cantore della civiltà industriale delle grandi fabbriche del primo Novecento e della Chicago “grande macello del mondo”, siede la sera aspettando l’amore, è pronto a barattare la fama e la ricchezza per un po’ d’amore, anche solo per la sua speranza, la sua parvenza. E magari pensa all’Iperione di Friedrich Hölderlin: “Che cosa è tutto quanto gli uomini han pensato in millenni, di fronte a un solo istante di amore? È pur la cosa più perfetta, più divinamente bella della natura! Colà guidano tutti i gradini sulla soglia della vita, di là veniamo, colà andiamo!”

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Edward Hopper, “Ufficio in una piccola città”

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LA FRASE DEL GIORNO
Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita.
GIACOMO LEOPARDI, Lettere




Carl Sandburg (Galesburg, Illinois, 6 gennaio 1878 – Flat Rock, North Carolina, 22 luglio 1967), poeta statunitense. Nella sua poesia, in cui è costante il richiamo ai principi della solidarietà democratica, l’evidenza delle immagini e l'andamento discorsivo creano un linguaggio sperimentale, giocato sui contrasti e sulla vivacità della scansione.



giovedì 20 gennaio 2011

Amare di più, voler bene di meno

 

CATULLO

CARME 72

Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,
e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.
E io ti ho amato non come tutti un'amante,
ma come un padre ama ognuno dei suoi figli.
Ora so chi sei: e anche se più intenso è il desiderio
ti sei ridotta per me sempre più insignificante e vile.
Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,
vedi, ad amare di più, ma con minore amore.

(dai Carmi – Traduzione di Mario Ramous)

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Questo Carme 72 è il complemento del 70, quello dei giuramenti d’amore che avevamo già visto sul Canto delle Sirene: “Solo con te farei l'amore, dice la donna mia, / solo con te, anche se mi volesse Giove. / Dice: ma ciò che dice una donna a un amante impazzito / devi scriverlo sul vento, sull'acqua che scorre”.

È passato del tempo e lo spergiuro di Lesbia si è rivelato tale: ora la predisposizione di Catullo alla sofferenza lo colloca nell’orbita della condizione del dolore, della disperazione consapevole. E il poeta latino ne trae una modernissima conclusione: l’incapacità di rinunciare all’amore di Lesbia nonostante i suoi conclamati tradimenti (“la mia Lesbia  /… / ora all’angolo dei vicoli spreme / questa gioventù dorata di Remo”) lo porta a distinguere tra amare e bene velle, tra amare e voler bene. Qui Mario Ramous traduce “amare di più, ma con minore amore”, il testo latino è invece una vera e propria coltellata: “amare magis sed bene velle minus”, amare di più ma voler bene di meno, lacerazione tra l’eros e il bisogno d’amore.

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Lawrence Alma Tadema, "Un silenzio eloquente"

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LA FRASE DEL GIORNO
Un uomo non rimpiange per amore chi l'abbia tradito, ma per l'avvilimento di non avere meritato la fiducia. 
CESARE PAVESE




Gaio Valerio Catullo (Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.), poeta romano. È noto per l'intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale.

mercoledì 19 gennaio 2011

Della fiducia


Che cos’è la fiducia? È la sicurezza che si ripone in qualcosa o in qualcuno. Fiducia nel domani, nei risparmi, in una persona. Fiducia nel governo (di solito, poca) e fiducia che il governo chiede per essere confermato in carica, ovvero la dimostrazione che i parlamentari ne hanno ancora fiducia. Una parente prossima della speranza. Ha la stessa etimologia di fede – un’antichissima radice indoeuropea *bheidh-, a significare che da sempre gli uomini hanno avuto fiducia – e presuppone lealtà e onestà.

Ma da sempre gli uomini hanno anche fatto tesoro del motto “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”: e infatti accanto alle testimonianze letterarie sulla fiducia ve ne sono almeno altrettante sul diffidare. Famosissima è la versione “biblica” di Woody Allen: “Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello non dormirà molto”. Pratico anche l’ufficiale inglese Valentine Blacker, tenente colonnello della Compagnia delle Indie Orientali: “Abbiate fiducia in Dio, ragazzi, e tenete la polvere da sparo all’asciutto”. E il letterato inglese Samuel Johnson: “Se costui crede veramente che non c’è distinzione tra vizio e virtù allora quando esce dalle nostre case è meglio contare i nostri cucchiai”. Lo scrittore francese Prospère Mérimée, autore di Carmen, recava inciso nel castone del suo anello: “Ricordati di diffidare”. Baltasar Gracián annotava invece: “La fiducia è la madre della disattenzione”. Il grande scrittore russo Anton Cechov era un amico degli animali: “Fidati del tuo cane fino all’ultimo, ma di tua moglie o di tuo marito solo fino alla prima occasione”. Il contrario di Giulio Cesare, secondo quanto cita Plutarco nelle Vite parallele: “Ritengo che mia moglie non debba neppure essere sospettata”.

Il titolo di questo post è “Della fiducia” ma, a parte l’indignazione di Cesare, finora ho raccolto solo testimonianze contro di essa. Proviamo a trovare qualche testimone della difesa: l’umanista spagnolo Juan Luis Vives, per esempio, che ammonisce: “La vita per i diffidenti e i timorosi, non è vita, bensì una morte costante”. Poi una delle celebri Massime di François de La Rochefoucauld che ci mette in guardia: “La nostra diffidenza giustifica l’inganno altrui”. E William Shakespeare: “Fidarsi è una colpa? La colpa è del ladro” in Molto rumore per nulla. Un uomo di pace come il Mahatma Gandhi – e non poteva essere altrimenti: “La fiducia non può avere dei limiti e deve sempre oltrepassare la barriera del dubbio”.

La morale? Fidarsi sì, ma con juicio

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Fotografia © TrustNet

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LA FRASE DEL GIORNO
La fiducia può esaurirsi, se si vuol troppo cimentarla. 
BERTOLT BRECHT, Vita di Galileo

martedì 18 gennaio 2011

Gli esperti, gli inventori

 

EDUARDO EMBRY

ESPERTI

Gli esperti, gli inventori
dei venticinque modi
migliori di scrivere una poesia
raccomandano che uno passi una mano
sul dorso della parola,
e che con l’altra, la prenda per la nuca,
i professionisti, quelli che inventano
e spiegano come far bene le cose,
dicono che non serve a molto avere
un gran talento,
ma come si usa
la grazia che Dio, o il demonio, ci ha dato.
Gli esperti, gli inventori
che sanno come far sì che le piantine
crescano con occhi azzurri,
uccidono gli insetti
con la colla,
guardo con timore i loro laboratori
segreti,
ignoro che cosa faranno domani
alla libertà delle mie parole.

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Eduardo Embry è un poeta cileno trapiantato in Inghilterra. Nato nel 1938 a Valparaiso, è uno studioso della poesia ispanoamericana del Medioevo e del Rinascimento. Non gli stanno tanto simpatici i critici, probabilmente gli piace la frase di Kenneth Tynan: “Un critico è un tizio che conosce la strada ma non sa guidare”. Come Diderot probabilmente pensa che è più facile criticare che eseguire anche mediocremente. E questi versi tratti da La fama non si compra sono un atto di accusa contro gli esperti, contro i “professionisti della parola”, qui equiparati a chi manipola la vita. In gioco – dice Embry – c’è la libertà dell’artista: la parola invece deve essere come quella cantata da Mario Luzi: “Vola alta, parola, cresci in profondità / tocca nadir e zenith della tua significazione”.

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Raoul Hausmann, “Il critico d'arte”

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LA FRASE DEL GIORNO
I critici giudicano le opere e non sanno di essere giudicati da esse. 
JEAN COCTEAU, La Difficulté d’être




Eduardo Embry Morales (Valparaíso, 28 ottobre 1938), poeta cileno. Fino al 1973 ha avuto la capacità di combinare il lavoro presso la Compagnia Cilena dei Tabacchi con un'intensa opera come scrittore e agente culturale. Dopo il golpe del 1973 fu prigioniero e poi esule a Southampton.



lunedì 17 gennaio 2011

Fiamme nella sera

 

ANTONIA POZZI

FUOCHI DI SANT’ANTONIO

Fiamme nella sera del mio nome
sento ardere in riva
a un mare oscuro –
e lungo i porti divampare roghi
di vecchie cose,
d'alghe e di barche
naufragate.

E in me nulla che possa
esser arso,
ma ogni ora di mia vita
ancora – con il suo peso indistruttibile
presente –
nel cuore spento della notte
mi segue.

17 gennaio 1935

 

Dei falò di Sant’Antonio si è già parlato due anni fa, del loro significato antropologico e folkloristico. In questo 17 gennaio seguiamo lo sguardo di Antonia Pozzi, la tormentata poetessa milanese che si uccise nel 1938 a 26 anni. Possiamo immaginarla nella zona del lago di Como, sulla sponda lecchese, assistere da lontano a quei falò tradizionali, seguire il guizzare alto delle fiamme che ardono vecchi legni e oggetti da buttare. Li guarda e si domanda se non sia per caso possibile allo stesso modo bruciare all’interno di noi quello che ci fa soffrire, incenerire tutti i dolori e tutte le preoccupazioni. La risposta naturalmente è no e i versi lasciano un’impronta cupa e desolata che disegna inquietanti scenari.

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FOTOGRAFIA © URBAN

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LA FRASE DEL GIORNO
Il fuoco è l'anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
GYÖRGY LUCÁSZ, Teoria del romanzo




Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938), poetessa italiana. Laureatasi in Filologia con una tesi su Flaubert, si tolse la vita dopo una contrastata storia d’amore. Il suo diario poetico Parole fu pubblicato postumo, nel 1939: composto a partire dai diciassette anni, riflette un'amara e inquieta sensibilità in cui si avverte l'influsso della lirica di Rilke.


domenica 16 gennaio 2011

Più dolce dell’amore

 

CARLO BETOCCHI

ALL’AMATA

I fior di oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s'aggirano nell'ombra,
un'altra luce sento che m'inonda
queste pupille che l'ombra violano.

Quale tu sei, non so; forse t'adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all'ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.

L'esser più soli, e l'aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove

l'amor di te che oltre di te s'avanza,
forse sarà per questo il dir d'amore
più dolce dell'amore che ci stanca.

(da Altre poesie, Vallecchi, 1939)

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Mi piace molto Carlo Betocchi, mi piace la sua felicità di vivere, la sua capacità di fondere allegria e dolore, di porsi davanti all’esistenza con fiduciosa attesa – anche se poi il dolore per la terribile malattia della compagna di vita, la musicista Emilia De Palma, lo farà dubitare. Fu lui stesso a definire la sua poetica: “La mia poesia nasce dall'allegria; anche quando parlo di dolore la mia poesia nasce dall'allegria. È allegria del conoscere, l'allegria dell'essere e dell'essere e del saper accettare e del poter accettare". Nei versi di All’amata esprime proprio questo senso dell’attesa, questo desiderio dolcissimo d’amore: perché si ama di più quando l’oggetto dell’amore è lontano...

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Peder Severin Krøyer, “Festa in giardino con Marie Krøyer”

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LA FRASE DEL GIORNO
Resiste la mia pazienza, / è come un orizzonte inconsumabile, / come un curvo pianeta è la mia anima.
CARLO BETOCCHI, Ultimissime




Carlo Betocchi (Torino, 23 gennaio 1899 – Bordighera, 25 maggio 1986, poeta e scrittore italiano. Fra i poeti ermetici è considerato una sorta di guida morale. Tuttavia, contrariamente a loro, fondava le sue poesie non su procedimenti analogici che evocano significati, ma su un linguaggio diretto, sul realismo e sulla tensione morale.


sabato 15 gennaio 2011

Notizie di casa

 

ATTILIO BERTOLUCCI

NESSUNO DI VOI…


Nessuno di voi, nessuno che venga dal Nord
mi porta notizie di casa,
le ultime, come fosse il tempo
a Parma, prima che il treno partisse?
A mezzo il mattino, alle dieci,
La folla minuta in lento transito
e commercio, in ozio frettoloso, in segreta
solitudine nel breve giro dei borghi,
la luce più debole che qui
sulle acque schiarite, se pure
il sole uscisse alla fine e le foglie dei platani
suonassero, dolce oro umiliato, al suo raggio?


(da Viaggio d’inverno, 1971)

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Nostalgia di emigrante di lusso quella che prova Attilio Bertolucci, che nel 1951 si trasferì a Roma dalla natia Parma. Possiamo immaginarlo passare dalle parti della stazione Termini e trovarsi a vedere i viaggiatori che arrivano da Milano. Giunge improvvisa la malinconia di chi si trova a vivere lontano dalle proprie radici, e basta poco per sanarla: anche solo parlare del tempo, pensare al calmo passeggio nelle vie cittadine – il battistero, il Duomo – o nei sobborghi, Busseto, la casa di Verdi a Roncole… Notizie di casa, poi l’animo si fa più leggero e si riprende la vita di sempre.
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Parma - Fotografia © Francigena Librari
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LA FRASE DEL GIORNO
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
CESARE PAVESE, La luna e i falò




Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000), poeta italiano. Le sue opere poetiche sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale.


venerdì 14 gennaio 2011

Juan Larrea

 

Una figura molto particolare del Surrealismo spagnolo fu Juan Larrea: per molto tempo addirittura venne messa in dubbio la sua esistenza, si pensava che il suo fosse un nom de plume o un eteronimo. Le sue poesie venivano infatti presentate da un altro poeta spagnolo, Gerardo Diego, che le pubblicava sulla rivista Carmen. Diego in realtà non faceva altro che tradurre i versi di Larrea, scritti in francese, la lingua ufficiale del Surrealismo, cui peraltro egli non aderì mai ufficialmente. Le sue poesie non sono mai state raccolte in volume.

Nato nei paesi baschi, a Bilbao, nel 1895, Larrea lavorò all’Archivio storico nazionale di Madrid prima di trasferirsi a Parigi e intraprendere la strada della poesia a contatto con i dadaisti e i surrealisti: divenne amico di  César Vallejo e fondò con lui una rivista dalla breve durata, solo due numeri. Alla morte prematura di Vallejo si trasferì ancora una volta, a New York – erano gli anni della guerra di Spagna - “mi trovai a navigare nel grande oceano della Cultura”. Dopo la seconda guerra mondiale trovò finalmente la sua collocazione in Argentina, dove rimase ad insegnare letteratura e a onorare la memoria di Vallejo con una rivista di studi dedicati all’amico.

La poesia di Larrea è un ibrido: non è spagnola e non è francese, ma ha influenzato molto i surrealisti spagnoli, da Gerardo Diego a Vicente Aleixandre, dal Garcia Lorca di Poeta in Nueva York all’Alberti degli angeli. Vittorio Bodini nota che “quello che più sorprende nelle visioni o equivalenze d’atmosfere che Larrea pesca dal proprio fondo è la straordinaria attitudine delle cose a compier atti o a provar sentimenti che siamo ben lontani da prevedere, ma la forza di persuasione del poeta ce li fa accettare nel modo più piano”. La sua ricerca è all’interno del dramma metafisico umano, è un affidarsi allo strumento della parola per cercare di distinguere tra uomo e poeta con uno stile che talora fa pensare alla scrittura automatica ma che non transige mai dalla logica. Nota ancora Bodini: “Ciò che cerca è l’estensione dell’io sino a includere i più remoti angoli dell’universo, l’annessione dell’altra faccia della vita, sogno ed inconscio, la dislocazione di sé, la moltiplicazione del reale in ipotesi”.

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SEQUENZA DI SUONI ELOQUENTI...

Sequenza di suoni eloquenti tendenti a splendore poesia
è questo e questo e questo
E ciò che giunge a me in qualità di innocenza oggi
che esiste perché io esisto e perché il mondo esiste
e perché tutti e tre possiamo correttamente cessar di esistere

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O DI OCEANO

Antonio
le navi caricano e scaricano come gli occhi dei testimoni
ma con tutto ciò son ben lontano dall'amare la boxe
lontano dalla vita lontano dalla morte
lontano dal pensare alla spugna bucherellata di punti di vista
Sui lillà di carne che assorbono l'equinozio
guarda questo colore di frase guarda questi nodi di ruscello
guarda questa speranza che cambia livello sotto i tuoi occhi
e queste pieghe di speranza che la rivestono
Vecchia zitella il mare
s'allontana soave
Ha un nodo alla gola ma io son lontano
lontano dalla morte lontano dalla vita
lontano dal circondare d'attenzione le  mie vecchie ossa di prateria
avendo come sola esperienza le nebbie

Antonio amico mio
non ci sarebbero volti senza paesaggi dopo la pioggia

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SPINE QUANDO NEVICA

(Nell'orto di Fray Luis)

Sognami sognami presto stella di terra
coltivata dalle mie palpebre afferrami per le mie anse d'ombra
stregami d'ali di marmo in fiamme stella stella nelle mie ceneri

Potere poter trovare infine sotto il mio sorriso la statua
d'una sera di sole i gesti a fior d'acqua
gli occhi a fior d'inverno

Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
l'innocenza del dipendere dalla volante bellezza
che si tradisce nell'ardore con cui le foglie cercano il petto più debole

Tu che prendi luce e abisso ai margini di questa carne
che cade ai miei piedi come vivezza ferita

Tu che in selve d'errore eri smarrita

Fa' conto che un'oscura rosa del mio silenzio viva senza lottare e senza uscita

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NON ESSERE ALTRO

Non essere altro che un filamento di terra ma implicato nella caccia
ai daini
una combinazione
di alito e di povere
avere un gilè senza un'ombra di edera
e un po' di sera fra i mattoni del cuore.

(da Poesia española. Antología 1915-1931, Madrid, 1932 – Trad. Vittorio Bodini)

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LA FRASE DEL GIORNO
Parzialmente seduto su un filone d’anima non oso / dondolarmi per paura che cielo e terra facciano stridere i cardini della nostra vita privata. 
JUAN LARREA




Juan Larrea (Bilbao, 13 marzo 1895 – Córdoba, 9 luglio 1980), scrittore e poeta spagnolo appartenente alla generazione del '27. La sua poesia, appartenente alla corrente creazionista, originale per l'architettura della metafora, ha influito su Rafael Alberti, Vicente Aleixandre e Gerardo Diego.



giovedì 13 gennaio 2011

Museo del ‘900


Chi a Milano passava per Piazza del Duomo nel corso degli ultimi tre-quattro anni poteva vedere il lato sinistro del Palazzo dell’Arengario chiuso da un cantiere. Tavole di legno impedivano l’accesso a quello che fino a quel momento era stato l’ufficio dell’Azienda di Promozione Turistica del Comune. Sulle assi era preannunciata l’apertura del Museo del ‘900 ed era possibile ottenere dei gadgets elettronici utilizzando un collegamento Bluetooth.

Ora il Museo del ‘900 è finalmente aperto: è stato inaugurato il 6 dicembre 2010 nei quattro piani dell’edificio, originario degli Anni Trenta ed esempio di arte razionalista. Praticamente si esce dalla fermata Duomo della metropolitana e si entra nell’esposizione, che conta ben 400 opere. Ad accogliere i visitatori sulla rampa elicoidale nera c’è l’enorme Quarto stato di Pelizza da Volpedo, celeberrima tela del 1902, quasi a sancire la fine di un’epoca e l’ingresso in un’altra. E infatti ci si imbatte subito dopo nelle avanguardie: Braque, Picasso, Klee, Matisse, Kandinskij, Modigliani. Ecco subito dopo i futuristi: Balla, Boccioni, Carrà, Depero, Funi, Soffici.

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Carlo Carrà, “Natura morta”

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È un’orgia di dinamismo e sperimentalismo, un’evoluzione distintamente percepibile: ci si precipita a leggere sulle didascalie il materiale usato, come per i collage di Soffici. Si guardano quei libri di Marinetti, consapevoli di trovarsi di fronte a un pezzo di storia della letteratura. Si rimane ad osservare Forme uniche della continuità nello spazio, la scultura di Boccioni, e viene la tentazione di togliere di tasca una moneta da 20 centesimi per confrontarla.


Umberto Boccioni,Forme uniche della continuità nello spazio”

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Amedeo Modigliani, "Ritratto di Paul Guillaume”

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Paul Klee, "Wald Bau"


 Si sale di un piano e si trovano gli Anni ‘20, ‘30 e ‘40:  le fabbriche di Sironi, le donne di Casorati, le figure metafisiche di De Chirico, le bottiglie di Morandi, le impressionanti sculture di Martini, l’astrattismo, l’arte monumentale, le sculture di Melotti, il postimpressionismo.  Il terzo piano ci porta alle opere polimateriche di Alberto Burri e nella Milano a cavallo tra gli Anni ‘50 e i ‘60: le invenzioni di Piero Manzoni, dalla Merda d’artista all’Uovo con impronta, l’arte informale di Vedova, Capogrossi, Novelli, Accardi e Tancredi. E ancora la pop-art italiana con Adami, Baj, Schifano, Rotella, Boetti, Pistoletto, Calzolari, Kounellis. La torre dell’Arengario ospita i famosi “tagli” di Lucio Fontana e una sua enorme installazione del 1970 con luci al neon, ricreata per il Museo in accordo con la Fondazione Fontana. Da lassù si gode anche una visuale insolita di Piazza del Duomo.


Lucio Fontana, “Signorina seduta”


L’installazione di Lucio Fontana

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MUSEO DEL '900
Palazzo dell'Arengario
Piazza Duomo (MM Duomo)
Milano

ORARI DI APERTURA:
LUN.  14.30 - 19.30
MAR. MER. VEN. e DOM.  9.30 - 19.30
GIO. e SAB.  9.30 - 22.30

Dal 7 dicembre 2010 al 28 febbraio 2011 l’ingresso è gratuito grazie alla sponsorizzazione di Bank of America Merrill Lynch.


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LA FRASE DEL GIORNO
L'arte non riproduce il visibile; piuttosto, crea il visibile.
PAUL KLEE