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mercoledì 25 maggio 2011

Giovanni Giudici


«Non stiate a interrogarvi che cosa
rumina mai - seduto
nel vano qui della finestra tuttavia
volte le spalle alla vista
basti per lui lasciare
strizzato goccia a goccia
un non tempo allargare la mente strenuata
pensando il non pensare».

Si è spento ieri a La Spezia uno dei massimi poeti del secondo Novecento, Giovanni Giudici. Era nato a Le Grazie, frazione del comune di Portovenere, il 24 maggio 1924. Nel 1933 la famiglia sì trasferì a Roma, città dove Giudici rimase fino al 1956, quando iniziò a lavorare alla Olivetti ad Ivrea prima e a Milano poi, per tornare a Lerici in vecchiaia. Giornalista, insegnante, ma soprattutto poeta, Giudici era partito da un tono neocrepuscolare  per poi piegare la sua poesia a una moralità sociale – antifascista, aveva militato nel Partito d’Azione e nel PSIUP. Traduttore di Frost e di Wallace Stevens, ne assorbì certamente qualcosa, sebbene il suo maestro riconosciuto fu Saba, come ammise lui stesso: “Saba è il più grande per la sua difficilissima semplicità. Ci sono degli effetti ottenuti lavorando sulla lingua, sui sentimenti, sul nulla, per cui una poesia si dice poesia. Le sue le so ancora a memoria”.

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LA VITA IN VERSI

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettando occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

(da La vita in versi, Mondadori, 1965)

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ALCUNI

Alcuni inseguono tutta la vita
uno scopo – il disegno di un meccanismo
un seme particolare di grano un incrocio di canarini
l’attuazione di un piano la costruzione di una casa.

Alcuni in abitazioni private o in asili
psichiatrici ritentano solitari di carte
o calcoli di moto perpetuo o altre
più improbabili imprese come rivoluzioni.

Essi sono uomini o donne derisi
o tutt’al più gentilmente commiserati
sia perché l’ambizione che li muove si giudica eccessiva
sia perché appare futile l’obiettivo.

Ma io voglio dire che al confronto
non c’è impresa spaziale né invenzione
pari all’attento studio di costoro che sacrificano
alla cosa impossibile ogni raggiungibile piacere.

Essi hanno parenti amici e figli madri e padri
mogli e mariti hanno maestri e direttori di coscienza
che accampano più esperienza
e che li esortano alla quotidiana concretezza.

Essi come ognuno di noi hanno persone e cose
di cui la presenza stessa ha forza più delle parole
e gli argomenti risultano inoppugnabili
quando gli dicono – pensa a quel che fai.

Non c’è dubbio – i persuasori sono nel giusto
perché è senza conforto lo stato di questi ostinati
e agitato è il loro sonno scarsa la salute del corpo
e non hanno alleata la minima probabilità.

Non è il loro coraggio coraggio di giocatore
o rischio calcolato di trafficante
e nemmeno intuito di stratega o di capo politico
o di chirurgo all’unica estrema occasione.

Essi non hanno con sé la tradizione di una fede
anzi tradiscono a volte
sovvertono la morale fomentano il disordine
in se stessi perduti prima di ogni salvezza.

E non possono indicarti il nome di qualcuno
perché non ha fama chi è nella vera ignominia
né superbia di martirio né la gloria di un emblema
ma grazie ad essi ha un senso la specie uomo.

Pensando di loro ti scrivo queste parole
oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza
sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia
ormai più di passato che di futuro nutribili.

E chiamandoti a un futuro di penuria
io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza
perché si possa dire che è una cosa reale
quella che due distinte persone vedono identica.

E tutto questo è ancora poco al confronto
del nulla di chi insegue un solitario ideale.
Essere umani può anche significare rassegnarsi.
Ma essere più umani è persistere a darsi.

(da O beatrice, Mondadori, 1972)

 

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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia da ragazzo mi sembrava una cosa da ricchi, non ero nella condizione di farla. Mi dicevo: "Ma come, ti metti a fare poesia?"
GIOVANNI GIUDICI




Giovanni Giudici (Porto Venere, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011), poeta e giornalista italiano. Della sua formazione cattolica e del suo lavoro nell'industria ha fatto i poli di una tensione che lo trascende e caratterizza il suo impegno civile. Numerose le sue traduzioni: Frost, Sylvia Plath, Orten, Pound, Ransom e Puškin.


3 commenti:

  1. ...sai , dopo aver letto alcuni mi è balzata quest'idea.

    ...alcuni vincono..
    ...alcuni perdono...
    ...tutti vincono....
    ...tutti perdono.

    ciao Vania

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  2. c'est la vie... ma c'è anche chi vince perdendo e chi perde vincendo

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  3. è siiiiii...HAI ragione :))
    ciaoooooo Vania

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