MARIO RIGONI STERN
QUEL NATALE NELLA STEPPA
In quell'inverno di quarant’anni fa (1941-1942 ndr) il grande freddo non aveva rallentato le operazioni militari e dal Mare di Barents al Mar d'Azov la guerra infuriava al pari della tormenta. Malgrado le perdite subite e l'occupazione nazista di gran parte della Russia europea, l'Armata Rossa era partita al contrattacco con una forza disperata e una preparazione tecnica che, dopo quanto era successo nei mesi precedenti, nessuno aveva previsto. Nel dicembre più freddo e più tragico della storia su, oltre il Circolo Polare Artico, finnici e russi del Nord si fronteggiavano in azioni dove più che le qualità guerriere valevano quelle fisiche e molti campioni di fondo caddero con gli sci ai piedi non solo per armi ma anche per gelo e fatica in una unica e lunghissima notte. I tedeschi rifornivano le loro guarnigioni in Lapponia a dorso d'uomo lungo una pista che partiva da Kemi, nel Golfo di Botnia, e che era chiamata «Strada del Mar dì Ghiaccio». Oltre mille chilometri più in basso, Leningrado era accerchiata da mesi e potè essere rifornita solamente quando il Ladoga gelò tanto da sopportare prima il peso delle slitte e poi delle autocolonne. Hitler aspettava ogni giorno la notizia della capitolazione della città: anzi, la resa non doveva nemmeno essere trattata, aveva detto: «Leningrado deve essere cancellata dalla faccia della Terra!». E più precisamente il generale Walimont, capo della «sezione difesa nazionale» del comando superiore dell'esercito, aveva approntato un piano per «bloccare ermeticamente Leningrado, quindi indebolirla con il terrore e con la fame. In primavera occuperemo la città, manderemo prigionieri nell'interno della Russia i sopravvissuti e raderemo al suolo Leningrado con l'esplosivo». Ma c'era anche chi aveva proposto di recintare la città con i reticolati, mitragliare chi tentava di uscire e I lasciare i tre milioni di cittadini morire di fame, anche se ciò creava per i comandi tedeschi «il problema di epidemie che si potrebbero diffondere tra le nostre truppe». Ma la città della Rivoluzione d'Ottobre seppe resistere per più di due anni e dopo, quando venne liberata, risultò che un cittadino su tre era morto per fame. La divisione SS Totenkopf (Teschio) che era giunta fino a Cudovo, interrompendo la ferrovia Mosca-Leningrado, dovette ritirarsi e sul fronte di Mosca le truppe siberiane comandate da Georgij Zukov. che già in ottobre aveva organizzato la difesa di Leningrado, incalzavano senza tregua le truppe corazzate di Guderian che erano arrivate fino a vedere le torri del Cremlino rosseggiare nel tramonto invernale. Ma anche giù, nel Sud, dopo altri mille chilometri da Mosca, il 25 novembre Timoscenko passò all'offensiva contro l'armata di von Kleist e riprese Rostov, la porta del Caucaso, dove l'esercito tedesco abbandonò carri armati e materiali pesanti. Al principio di quell'inverno apparvero anche per la prima volta sul fronte russo i famosi carri T34, dai larghi cingoli per camminare sopra la neve e il fango e con la corazza inclinata e sfuggente per non dare impatto alle bombe anticarro; molto agili nelle manovre, anche se apparentemente rozzi e grossolani nelle rifiniture, erano armati con un cannone da 76 mm e due mitragliatrici, pesavano 27 tonnellate e marciavano a 45 km all'ora con un motore di 500 hp che non s'incantava nemmeno nei freddi più feroci quando Guderian, lo stratega dei mezzi corazzati tedeschi, notava nel suo diario che «a meno 63° molti uomini morivano mentre facevano i propri bisogni» e se non sì era più che lesti a mangiare la zuppa questa in un attimo si solidificava.
Si racconta anche che un giorno un generale russo si fece portare davanti un gruppo di prigionieri tedeschi e alla presenza dei suoi soldati ordinò a questi prigionieri che si levassero le scarpe facendole posare ognuno davanti a sé. Fece allora notare come gli stivali chiodati dei tedeschi avessero la misura dei piedi, e aggiunse: «Loro non sanno che da duecento anni i soldati del nostro esercito portano le calzature molto abbondanti, in modo che durante l'inverno si possano imbottire di paglia o di carta per non restare con i piedi congelati. Anche questa delle scarpe su misura e una ragione per cui i tedeschi perderanno la guerra». Intanto nel bacino del Donetz il nostro Corpo di Spedizione faceva la sua parte anche se tante difficoltà, non dovute esclusivamente a quel rigidissimo inverno, sottoponevano i soldati a una prova mai subita prima. Nelle basi di Jassinovataia, Rykovo, Gorlovka, Michailovska attorno alle cucine dei reparti stormi di bambini e di ragazzi senza casa e senza più famiglia aspettavano l'ora del rancio per ripulire le marmitte dove i nostri cucinieri lasciavano qualcosa per loro; in cambio si prestavano a raccogliere legna tra le macerie delle case o attingere l'acqua dai pozzi che grondavano lunghe stalattiti di ghiaccio. Alla sera, come i cani randagi, questi bambini sfamati dalla pietà dei nostri soldati si ritiravano a passare la notte nelle fabbriche semidistrutte nei pressi delle miniere di carbone, o in qualche isba di nessuno. Il giorno di Natale i sovietici ripresero l'offensiva proprio nel settore tenuto dalla Celere dove tre battaglioni di bersaglieri, due della Tagliamento e quattro gruppi di artiglieria tenevano un fronte di venti chilometri. Davanti a loro erano state ammassate tre divisioni di fanteria e un corpo di cavalleria. Anche se le unità sovietiche avevano un organico inferiore, la loro superiorità numerica e il loro volume di fuoco erano superiori, e alle 6,40, dopo una violenta e breve preparazione con artiglieria e mortai, uscirono all'attacco appoggiate dai carri armati. Lo scontro fu violento, duro, e l'ordine che avevano i bersaglieri e i militi della Tagliamento, che in quell'occasione dipendevano non dal Csir ma direttamente dal XLIX Corpo alpino tedesco, era di "non cedere un metro di terreno". Ma «superate le difese esterne, il nemico dilagava irrefrenabile nell'interno delle posizioni dove alcuni presidi, completamente aggirati, resistevano fino al totale annientamento». Era un preludio a quello che sarebbe successo un anno dopo sulle rive del Don all'8a Armata italiana. La battaglia continuò tutto quel giorno con alterne vicende e in tanti episodi. Alle 13,30 il comando tedesco ordinò il contrattacco con due colonne miste di bersaglieri e fanti tedeschi, e quando scende la sera di quel 25 dicembre 1941 molti italiani sono irrigiditi per sempre nella neve. Alcuni caposaldi resistono ancora, altri sono silenziosi, alcuni villaggi sono occupati metà dai russi e metà dagli italiani. Il giorno successivo saranno i fanti della Pasubio che interverranno da sinistra contro le colonne russe che tentano di raggiungere il fiume Krinka, minacciando Stalino. I combattimenti continueranno spezzettati fino al giorno 27 quando i reparti del Csir si consolideranno sulle loro posizioni. Lo stesso giorno il comando della 1° Armata corazzata ordina una controffensiva e ancora la Pasubio, la Torino e la Celere il giorno 28 attaccano le linee che hanno di fronte. Si verifica in questa azione la ripetizione dell'attacco sferrato dai russi il giorno di Natale: in un primo tempo le posizioni attaccate vengono prese, successivamente il contrattacco neutralizza l'offensiva. Tutte queste operazioni del Corpo di Spedizione Italiano vanno sotto il nome di «Battaglia di Natale»; ai nostri reparti costarono molte perdite, centinaia furono anche i congelati perché i combattimenti si svolsero in un freddo polare e tra nebbie fitte che stagnavano nelle depressioni delle balche.
Sciatori
Mentre succedeva questo, ad Aosta, nella caserma Chiarle, un piccolo reparto dì un centinaio d'uomini stava completando la sua preparazione tecnica e logistica: erano gli alpini sciatori del battaglione Monte Cervino, scelti da tutti i reggimenti nella cerchia delle Alpi. Come avanguardia di tanti altri alpini partì per la Russia nel gennaio del 1942. Lungo il viaggio, in una città della Polonia, il convoglio del Cervino sostò di fronte a un treno di soldati tedeschi che proveniva dal settore di Mosca: i soldati erano dentro i carri bestiame sdraiati su un po' di strame, le ferite erano fasciate con carta, erano anche senza scarpe e disarmati, pallidi e smunti; per riscaldarsi avevano acceso un po' di carbone dentro gli elmetti. Un giovane alpino chiese nella loro lingua: «Come va la guerra?». «Merda la guerra!» rispose uno per tutti.
(da La Stampa, 24 dicembre 1981, poi in I racconti di guerra, Einaudi, 2007)
Mario Rigoni Stern racconta da storico appassionato la “battaglia di Natale” che si combatté sul fronte russo nell’inverno del 1941, l’anno precedente la celebre “Ritirata”. In quel momento le sorti della guerra arridevano ancora ai tedeschi, ma proprio quello scontro, cui presero parte anche le divisioni di fanteria italiane Pasubio e Torino, le camicie nere della Tagliamento e la divisione Celere con i bersaglieri, i Lancieri di Savoia e i Cavalieri di Savoia, i carristi della San Giorgio, appoggiati dall’aeronautica, segnò il primo grave scacco per le armate hitleriane. Nel 1942, con l’allargamento del conflitto agli Stati Uniti e l’alleanza anglo-sovietica del 26 maggio, il destino della guerra muterà radicalmente.
Dal racconto di Rigoni Stern emerge anche un’altra indicazione: l’inadeguatezza degli equipaggiamenti. Infatti in questa prima battaglia nel gelo del fronte russo al termine risulta più alto il numero dei morti congelati rispetto ai caduti in combattimento. Il “generale Inverno” fatale a Napoleone, lo sarà anche per Hitler. Intanto, in quei giorni freddissimi con temperature sempre al di sotto dei -20° e sovente al limite dei -60°, l’Armata Rossa contrattacca usando l’arma psicologica di ignorare quei giorni tradizionalmente considerati come tregua, e riconquista Kalinin, Tula e Kaluga, respingendo i tedeschi, che erano arrivati a 50 km da Mosca. Una lezione che non viene appresa, visto che l’inverno successivo si ripeterà l’identica scena e Rigoni Stern, inviato con i suoi alpini del battaglione Vestone, la Divisione Tridentina, la Julia e la Cuneense a supportare le divisioni di fanteria italiane e i corpi d’armata tedeschi, rumeni e ungheresi, dovrà raccontare un’altra odissea nel ghiaccio e nella neve della steppa ucraina.
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LA FRASE DEL GIORNO
Tornammo in pochi, e quando in quel maggio arrivammo alla stazione di Udine, aspettarono la notte per farci uscire dai vagoni bestiame. Non volevano che la gente ci vedesse. Avevamo il torto o la colpa di essere ancora vivi.
MARIO RIGONI STERN, I racconti di guerra
LA FRASE DEL GIORNO
Tornammo in pochi, e quando in quel maggio arrivammo alla stazione di Udine, aspettarono la notte per farci uscire dai vagoni bestiame. Non volevano che la gente ci vedesse. Avevamo il torto o la colpa di essere ancora vivi.
MARIO RIGONI STERN, I racconti di guerra
Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – 16 giugno 2008), scrittore italiano. I suoi testi, di cui il più noto è il romanzo Il sergente nella neve, piccola Anabasi di un gruppo di alpini italiani sul fronte del Don, nel secondo conflitto mondiale, hanno doti di freschezza e d'immediatezza lirica decantata in coscienza morale.
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