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sabato 3 maggio 2008

Il destino della poesia


CARLO CHIAVES

NEL SECOLO DUEMILATRECENTO


Nel secolo Duemila Trecento (suppongo non sia
per anco rovinata, dispersa, la crosta del mondo)
chi sa che un turbolento bambino, frugando nel fondo
di una allormai diserta, inutile libreria,

non trovi, o libro, o labile indizio de' palpiti miei,
il tuo esemplare estremo, un poco corroso dal tarlo;
non corra irrequieto, incuriosito, a mostrarlo
al padre "O cos'è questo, babbo?" "Mah! non lo saprei!

"O dove l'hai trovato? fra quelli più grandi? Chi sa
non sia questo lo scritto più raro d'un qualche poeta!"
"Che vuol mai dire?" "O figlio, vuol dire una razza inquieta
di gente ch'è scomparsa da quasi un'eternità!

"Di gente che campava, ma fantasticando, e che poi,
quanto sentiva fervere in fondo al bizzarro pensiero
fermava su le carte, con ritmo o grave o leggero,
con voci uguali e quasi del tutto ignorate fra noi".

Allora il bimbo che certo nulla, ma nulla affatto
ne avrà compreso, senza pensare o cercare più in là,
ti infilzerà a uno spago, mio libro, e ti adoprerà
un qualche istante ancora, per trastullarsi col gatto,

indi, dispersi, laceri, i fogli, e calpesti, nel foco
consumerai, più presto di quanto saremo già noi
in terra consumati, poeti inutili o eroi,
tu che un istante almeno avrai servito ad un gioco.

(da Sogno e ironia. Versi, Lattes, 1910).


“La poesia continua a esserci, con esiti espressivi non inferiori a quelli dei decenni precedenti. Quello che è cambiato è l'universo della comunicazione. La società-spettacolo non vuole cancellare la nobile funzione della poesia, perché sa che ne avrebbe un ritorno d'immagine negativo. E allora, semplicemente, e per arrivare ai grandi numeri, fa della canzone il surrogato di massa della poesia. E lo fa anche per la musica, tanto è vero che non si parla più di «musica leggera», ma di musica tout-court, magari per qualche canzonetta che un minimo di cultura musicale indurrebbe a restituire al mittente. C'è però un fatto decisivo a conferma della presenza vitale, anche se occultata dai media più forti, della poesia, e cioè la fiducia tranquilla dei giovanissimi in questo genere espressivo. Qualche anno fa pensavo: com'è possibile che un diciottenne, oggi, affidi il meglio di sé alla poesia, in un mondo che tende a nasconderla? Ebbene, i giovani che scrivono versi, ma non per raccontare le sole sciocchezze in cuore e amore, sono tanti e pienamente persuasi. Investono il meglio di sé nell'energia insostituibile e nella verità profonda della parola poetica, e non gliene importa nulla dei vip televisivi e della cultura di massa”.

Questo è un ampio stralcio di un articolo scritto ormai cinque anni fa dal poeta e critico Maurizio Cucchi sul destino della poesia nella società moderna. Non è una domanda recente, nonostante quello che sembri. Certo, le cose sono peggiorate ancora, ma già nel 1910 il poeta crepuscolare torinese Carlo Chiaves provava a dare una risposta al quesito con questi versi: quattro secoli dopo la poesia è scomparsa, sempre che il mondo esista ancora. L’inquietudine dei poeti, la loro fantasia, quella loro bizzarria sono solo un ricordo. Ma l’utilità della poesia non è messa in discussione: distrutta, lacerata, calpestata, può ancora dare piacere, accendere per un istante il sorriso di un bambino che gioca con un gatto.


Alexander Deineka, "Donna che legge", 1934



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LA FRASE DEL GIORNO
Colui che soffre per amore è come una pianta di mimosa che si chiude, e nessun grimaldello la apre; più si fa violenza, più si chiude.
SÖREN KIERKEGAARD, Diario




Carlo Chiaves (Torino, 28 novembre 1882 – 16 maggio 1919), poeta e giornalista italiano. Amico di Gozzano e di Amalia Guglielminetti, nei suoi versi esprime con grazia i temi della poesia crepuscolare. Letterato versatile, praticò anche il teatro.



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