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martedì 10 novembre 2009

L’infinita vanità del tutto


GIACOMO LEOPARDI
A SE STESSO

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.

(da Canti, 1835)

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Il pessimismo leopardiano tocca forse il suo punto più profondo in questa lirica di sedici versi, resa con uno stile spoglio e continuamente rotto nel ritmo, segno della tensione morale che lo porta a questa sua intima riflessione. All’origine di “A se stesso”, scritta nel 1833, c’è una delusione d’amore: tre anni prima Leopardi aveva conosciuto a Firenze Fanny Targiotti Tozzetti, l’Aspasia di altre poesie, ed è lei – nulla si sa di come finì la relazione - la causa della disperazione del poeta. Quell’amore, l’«inganno estremo» è un’illusione che è svanita, ma il poeta di Recanati, allora trentacinquenne, ben sapeva che la vita è composta di illusioni, “non mere vanità, ma… cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno”, come scrisse in una lettera del 1820. È per questo che accoglie con rassegnazione quest’altro smacco, abbandonandosi ancora una volta alla disperazione, alla constatazione che la vita e il mondo altro non sono che fonti di amarezza e di noia, di inganni e di illusioni; è per questo che trova un colpevole e lo indica nella natura, matrigna e non amorevole madre, che procura all’uomo un presente di infelicità   -«a comun danno impera» è segno di una condivisione, di un’apertura verso gli altri e il loro destino. Chiaro che allora tutto diventi inutile, come il Leopardi sintetizza in uno dei versi più belli della letteratura italiana, quel finale che rimanda a un altro pensiero dello Zibaldone sul pessimismo cosmico: “Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, più tranquillo ed io stesso in un’ora certamente più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà”. Certo, detto in poesia fa tutto un altro effetto…


 


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LA FRASE DEL GIORNO
Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor.
GIACOMO LEOPARDI, Canti, “Ultimo canto di Saffo”




Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837), poeta, filosofo, scrittore e filologo italiano. La sua poesia si collega a un’approfondita riflessione sulla condizione e il destino dell’uomo nella civiltà moderna sulla traccia di una concezione radicalmente pessimistica dell’esistenza.


3 commenti:

  1. A 16 anni adoravo Leopardi e piangevo con lui per i miei piccoli amori perduti,adesso amo ancora Leopardi ma non piango più,o quasi, la vita insegna tante cose.....

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  2. Mi sono sempre chiesto che poesie avrebbe potuto scrivere un Leopardi maturo, invecchiato... Amo le sue poesie, ma non condivido questo suo pessimismo cosmico.

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  3. L'intimismo leopardiano è sempre di grande attualità, andrebbe riscoperto per approfondirne la trama e capirne il senso in questi nostri tempi in cui il tessuto sociale è sfilacciato, logoro, povero di quel senso vero che richiedono le relazioni autentiche.

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