venerdì 31 luglio 2009

Appio Claudio Cieco

Agli albori della letteratura latina, dopo le anonime iscrizioni epigrafiche, i canti religiosi e le dodici tavole del diritto romano, la prima personalità compare nel III secolo a.C.: Appio Claudio Cieco, censore nel 312 e console nel 307 e nel 296, proveniente da una orgogliosa famiglia patrizia, fece costruire il primo acquedotto e la via che porta il suo nome, la Appia, per avvicinare Roma al mondo greco-italiota.

Di Appio ci restano solo alcune massime che denotano sentimenti liberali ed equilibrio orale, in spregio della sfrontatezza e della prepotenza. Perduta è un'orazione contro Pirro, molto famosa nel mondo antico, di cui Ennio testimoniò la violenza della requisitoria e la passione per la libertà del suolo romano dall'invasore.

 

MASSIME DI APPIO CLAUDIO CIECO:

Occorre conservare un animo equilibrato perché la tracotanza non generi frode e violenza.

(citata da Festo, in "De significatione verborum")

Quando vedi un amico, dimentichi le amarezze.

(citata da Prisciano, in "Institutio de arte grammatica")

Ciascuno è artefice della propria fortuna.

(citata da Sallustio, in "Epistulae ad Cesarem")

 



 

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LA FRASE DEL GIORNO
Per imparare bisogna essere umili. Ma la vita è la grande maestra.
JAMES JOYCE, Ulisse




Appio Claudio Cieco (Roma, 350 a.C. – 271 a.C.), politico, letterato e militare romano, nato di nobili origini in quanto membro dell'antica gens Claudia. Ardito innovatore in politica, è il primo degli antichi personaggi romani la cui personalità si stacchi nettamente sullo sfondo della tradizione. Egli era considerato anche come il primo antico prosatore latino.


giovedì 30 luglio 2009

Il disincanto di Asclepiade


ASCLEPIADE

LA FAMOSA NICÒ

La famosa Nicò
promise che stanotte
sarebbe corsa da me.
Lo giurò su Demetra.
Ma non venne. La ronda è già passata.
Forse intendeva di giurare a vuoto?
Ragazzi, spegnete le lampade.

(dall’Antologia Palatina)

.

Asclepiade, poeta greco nato a Samo forse nel IV secolo avanti Cristo, era famosissimo nella sua epoca: perfezionò il verso che prese il suo nome, l’asclepiadeo, e generò una schiera di imitatori nella lirica alessandrina. Era un cantore del disincanto: possiamo apprezzarne la portata in questi pochi versi raccolti nell’Antologia Palatina (V, 149). Anche se di lui possediamo solo 45 poesie, non sono frammenti: la  brevità era la sua caratteristica, una semplicità essenziale a corollario della chiarezza dell’espressione. Ne risulta una poesia che racchiude un breve cosmo e trascina la grazia e la verità in una fugace corsa.

Così Asclepiade, poeta del convito e dell’amore, si ritrova solo nel letto a meditare sui giuramenti di una donna, come farà Catullo tre secoli dopo. L’etera Nicò, che aveva promesso di raggiungerlo a casa, non si è fatta vedere, la notte è fonda, la ronda è già passata. Che fare? Servi, spegnete le lampade, è ora di dormire…


Lawrence Alma Tadema, "Lettura di Omero", part.


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LA FRASE DEL GIORNO
In tutto il mondo non esistono che diamanti, diamanti e forse lo squallido dono del disincanto. Bene, io possiedo quest'ultimo e, come al solito, non saprò che farmene.
FRANCIS SCOTT FITZGERALD, Racconti dell’età del jazz




Asclepiade
(Samo, tra la fine del V i primi decennî del III secolo a. C.), poeta greco antico. Temperamento essenzialmente lirico, portato a cantare il vino e l'amore, cercò di rinverdire la tradizione della poesia lirica eolica di Alceo e di Saffo. Due metri lirici, già usati dai poeti di Lesbo e da lui rimessi in voga, ebbero perciò il nome di Asclepiadei.

mercoledì 29 luglio 2009

Ricette letterarie - 7

Gamberi fritti


LUIS SEPÚLVEDA
Il vecchio che leggeva romanzi d'amore



“La cosa migliore della stagione delle piogge era che bastava scendere al fiume, immergersi, muovere qualche pietra e frugare nel letto fangoso per avere a disposizione una dozzina di grossi gamberi per colazione”.

È una ricetta semplicissima quella che ci fornisce lo scrittore cileno Luis Sepúlveda in questo romanzo in cui il protagonista è Antonio Josè Bolivar, un vecchio che vive in prossimità della foresta amazzonica, nella cittadina di El Idillio, dopo aver trascorso anni con gli indios shuar. Antonio è un vorace lettore di romanzi “che parlavano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.
Conosce la natura e i suoi tesori. Tra questi, i gamberi di fiume, che nella stagione delle piogge è facilissimo trovare e che costituiscono la sua colazione.

GAMBERI FRITTI

Gamberi (anche di mare), 200 g a persona
Farina
Olio di semi
Sale



Passare i gamberi nella farina, friggerli un po' per volta in abbondante olio ancora con il loro guscio finché non raggiungono la doratura, deporli su un foglio di carta assorbente e salarli. Si mangiano caldissimi.



Fotografia © Gazeta do Povo



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LA FRASE DEL GIORNO
Se un uomo ha fame, non dargli il pesce: insegnagli a pescare.
PROVERBIO CINESE




Luis Sepúlveda Calfucura (Ovalle, 4 ottobre 1949), scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista e attivista cileno naturalizzato francese.  È autore di romanzi e racconti di fantasia, sorretti da un'intensa vena favolisticao da riflessioni dure e amare sul mondo contemporaneo con un'attenzione costante verso le tematiche ecologiste.


martedì 28 luglio 2009

Un’ode sublime



SAFFO 

SIMILE A UN DIO 


Simile a un dio mi sembra quell'uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, subito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell'erba; e poco lontana mi sento
dall'essere morta.
Ma tutto si può sopportare...



CATULLO

CARME 51


Simile a un dio mi sembra che sia
e forse più di un dio, vorrei dire,
chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi
ti ascolta ridere
dolcemente; ed io mi sento morire
d'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,
a me non rimane in cuore nemmeno
un po' di voce,
la lingua si secca e un fuoco sottile
mi scorre nelle ossa, le orecchie
mi ronzano dentro e su questi occhi
scende la notte.


(da Carmina - Traduzione di Mario Ramous)



Simeon Solomon, “Saffo ed Erinna”


L’anonimo greco del I-II secolo dopo Cristo che scrisse un trattato sul “Sublime” sosteneva che nella poesia a prevalere sono le forze irrazionali. E per dimostrare la sua tesi parla di questa ode di Saffo, famosissima, in cui la poetessa, analizzando i tanti aspetti di una passione amorosa, spesso contraddittori tra loro, crea una perfetta unità di sentire e raggiunge il sublime. 

L’anonimo del Sublime spiega in che modo Saffo dimostra la sua geniale virtù: “Quando sa scegliere e legare gli uni con gli altri i culmini di tali sentimenti e i momenti più tesi… Non ti fa meraviglia, vedendo come d’un colpo, l’anima, il corpo, le orecchie, la lingua, gli occhi, la pelle, tutte le parti insomma, Saffo le vada recuperando, quasi non fossero sue, ma disperse; e nello stesso contraddicendosi è fredda e brucia e ragiona e vaneggia, (o teme di morire o già quasi è morta) al punto che pare che in lei ci sia non una sola passione, ma un incontro di passioni”.

Un amore raccontato attraverso sensazioni, in realtà non è chiaro se sia un’ode alla gelosia o alla passione. Quello che è probabile è che si trattasse di una scena che si ripeteva spesso nel tiaso, il “collegio” con finalità religiose, questo in particolare dedicato al culto di Afrodite, di cui Saffo era la sacerdotessa: le ragazze che venivano istruite, educate e preparate al matrimonio con l’insegnamento della danza, del canto, dell’amore, della ricerca dell’estetica raffinata in ogni cosa, a un certo punto erano pronte per la loro nuova vita e per il marito e abbandonavano il tiaso. L’addio era spesso straziante e la nostalgia fortissima. “…«Sinceramente vorrei essere morta». Ella versando grosse lacrime mi lasciava e questo mi andava ripetendo” recita un’altra poesia di Saffo e la poetessa di Lesbo così consola la ragazza: “Va sorridente e di me ricòrdati; tu sai quanto t’abbiamo avuta cara; e se non sai, ti voglio ricordare… e quante ore belle e soavi abbiamo trascorso; molte ghirlande di viole, di rose e di zafferano insieme, …accanto a me cingesti e molti serti, corone al morbido collo, intrecciate d’amabili fiori…”

Un’ode sublime, dunque, così considerata già nell’antichità, tanto che Catullo provò a tradurla in latino, ottenendo un risultato liricamente altrettanto elevato.




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LA FRASE DEL GIORNO
Il Sublime trascina gli ascoltatori, non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.
ANONIMO, Trattato del Sublime




Saffo (Ereso, 630 a.C. circa – Leucade, 570 a.C. circa), poetessa greca antica. Di nobile famiglia, colta e raffinata, istituì un tiaso, un collegio per ragazze, dedicato al culto di Afrodite, in cui si educavano le fanciulle al matrimonio. La sua sensibilità poetica seppe penetrare nell’animo e nelle cose cogliendone l’essenza, tanto che Platone la definì “la Decima Musa”.


Gaio Valerio Catullo (Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.), poeta romano. È noto per l'intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale.




lunedì 27 luglio 2009

Teognide e la felicità

TEOGNIDE

NESSUNO È DAVVERO FELICE

Nessuno è davvero felice; ma l'uomo nobile,
afflitto da mali, sopporta e non li dimostra:
il vile invece né al bene né al male
resiste; non sa contenerne l'impulso. Doni diversi
ai mortali giungono dagli immortali; ma conviene
avere coraggio, tenendosi i doni degli immortali, così come essi li danno.

(Elegie, vv. 441-446, traduzione di Francesco Della Corte)


Questi versi sono di Teognide, poeta elegiaco megarese, vissuto nel VI secolo avanti Cristo; impregnato di un’etica nobile, si convinse in seguito alle vicende storiche che dovette patire – aristocratico decaduto, fu esule in Eubea, a Sparta e in Sicilia – che l’umanità non è felice e che deve accettare con rassegnazione quello che gli dei vogliono mandare. Un pessimismo leopardiano ante litteram che gli fa dire: “Uno ha un male, uno un altro. Ma una cosa è certa: / non c’è uomo felice sotto il sole” (vv. 167-168). È un pensiero che Teognide traspone anche alla gioventù, splendidamente definita come “una rapina di cavalle in fuga”.

 

Kouros greco, particolare

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Le angosce umane hanno screziate piume: gemono per l’esistenza e per la sussistenza.
TEOGNIDE, Elegie




Teognide (Megara, VI secolo a.C.), poeta elegiaco greco antico. Della sua produzione rimane la silloge nota come Corpus Theognideum, in origine quasi un manuale di etica aristocratica, conservatasi per l'interesse pedagogico e morale che rivestì nel mondo greco, dove venne citata e usata come una sorta di testo scolastico.


domenica 26 luglio 2009

Carrera Andrade e l’umanità


JORGE CARRERA ANDRADE

SONO L'UOMO UNIVERSO

Io sono l’abitante delle pietre
senza memoria, sete d’ombra verde;
il popolano di tutti i villaggi
e delle prodigiose capitali;
sono l’uomo universo,
marinaio di tutte le finestre
della terra stordita dai motori.
Sono l’uomo di Tokyo che si nutre
di pesciolini e bambù,
il minatore d’Europa, fratello della notte;
l’operaio del Congo e della spiaggia,
il pescatore della Polinesia,
sono l’indio d’America, il meticcio,
il giallo, il nero:
io sono tutti gli uomini.
Sopra il mio cuore firmano le genti
un patto eterno
di vera pace e fraternità.


Jorge Carrera Andrade, uno dei massimi poeti dell’Ecuador, amava mescolare l’universale al locale: metteva in pratica, come si può apprezzare da questa lirica, il motto di Publio Terenzio Afro: “Homo sum, nihil humani mihi alienum puto” (“Sono un uomo, niente di umano considero a me estraneo"), la condivisione di una sorte con altri sei miliardi e passa di umani. Senza distinzioni di razza e religione, senza confini, senza chiedere se una persona sia cittadina o campagnola, povera o ricca, colta o non istruita. Perché ognuno di noi è un misero miliardesimo di quell’umanità che ci accomuna. Una realtà che Carrera Andrade conferma con una visione, per così dire, “esterna”, in un’altra poesia:


VOCAZIONE TERRENA

Non sono venuto a burlarmi di questo mondo.
ma ad amare di cuore tutti gli esseri
Non sono venuto a ridere degli uomini.
ma a vivere con loro l'avventura terrena.

Non sono venuto a parlare male degli insetti
a scoprire le ferite del tramonto
a incarcerare la luce in una gabbia.
Non sono venuto a seminare sale nei campi.

Non sono venuto per dire che la giraffa
vuole imitare il cigno, che i pini
servono solo di ornamento alle rocce.
Non sono venuto per deridere i nidi.

Sono venuto a guardare il mondo da dentro
e ad amare le cose semplici
il patrimonio unico degli uomini.
Non sono venuto per deridere la morte.


Leon Zernitsky, "L'uomo e l'universo"


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LA FRASE DEL GIORNO
Solo l’uomo ha la parola per trovare la luce, o viaggiare verso il paese senza gli echi del nulla.
JORGE CARRERA ANDRADE, Il viaggio infinito




Jorge Carrera Andrade (Quito, 18 settembre 1902 – 9 novembre 1978), poeta, storico e diplomatico ecuadoriano, considerato uno dei più originali poeti dell'America spagnola contemporanea. Le sue poesie presentano elementi di simbolismo e modernismo.


sabato 25 luglio 2009

Una giornata di Ivan Denisovic

"Il vento soffia sulla terra nuda, secco in estate, gelido d'inverno. Qui non è mai cresciuto nulla se non quattro reticolati". Questo era il destino che attendeva Aleksandr Solzenicyn appena tornato dalla guerra: otto anni in un campo di concentramento staliniano, un famigerato gulag, quello di Ekibastuz, in Kazakistan. Chissà quale grave reato deve aver commesso lo scrittore russo per meritarsi i lavori forzati ed essere costretto a trasformarsi in minatore, operaio fonditore, muratore... Semplicemente, in una lettera privata a un amico del febbraio 1945 osò criticare il dittatore sovietico Stalin.

Da quell'esperienza terribile Solzenicyn, scomparso nel 2008 a 90 anni, trasse "Una giornata di Ivan Denisovic", lucida e cruda analisi di quello che succedeva nei gulag. Lo scrittore, che nel romanzo muta la sua sigla identificativa Щ-262 in  Щ-854 e assume il nome di Zhukov, un commilitone del fronte russo, denuncia quello che ha patito sulla sua pelle, senza comprendere bene, come molti altri, il suo reato. Solzenicyn usa lo stilema già adoperato da Joyce per il suo "Ulisse", concentrare il racconto in una sola giornata, ma quanto diverso è il trascorrere del tempo da quello di Bloom! Ivan Denisovic Zhukov si sveglia con il battere di un martello su un pezzo di rotaia. Comincia lì la giornata, nel freddo insopportabile, con le lunghe marce per raggiungere il luogo deputato ai lavori forzati, con il cibo razionato. Non c'è spazio per la fantasia nel grigiore del campo: l'unica forma di libertà è poter dire a un compagno che elogia il cinema staliniano di Eisenstein che "un genio non piega mai la sua interpretazione al gusto di un tiranno!" Proprio quello che Solzenicyn non fece.

Un'opera di denuncia con il passare del tempo certo sposta l'obiettivo più sull'aspetto letterario che su quello politico, ma "Una giornata di Ivan Denisovic" resta come una testimonianza degli orrori dell'Unione Sovietica staliniana e del terrore che ogni dittatura ha del libero pensiero, svincolato da ogni inchino al potere e capace di subire terribili sofferenze in nome della verità.

© Evstafiev

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LA FRASE DEL GIORNO
La letteratura trasmette esperienze pregnanti... da generazione a generazione. In questo modo la letteratura diventa memoria vivente di una nazione intera.
ALEKSANDR SOLZENICYN

venerdì 24 luglio 2009

Il modello Bauhaus a Berlino

Bauhaus fu il proseguimento del Futurismo, un’avanguardia che rivoluzionò l’architettura moderna innovando al contempo anche il design nel nome del razionalismo. La scuola fu talmente importante da dare il suo nome a un intero stile. La sua fondazione si deva a Walter Gropius che a Weimar nel 1919 unì due scuole di arti plastiche e di artigianato artistico per dare vita a un progetto moderno che poneva tutte le discipline al servizio dell’architettura. Erano tempi molto difficili: la Germania usciva dal disastro della Prima Guerra Mondiale e si avviava in un clima di profondissima crisi economica al periodo dell’orrore hitleriano. Fu proprio il regime nazista nel 1933 a chiudere la scuola, trasferitasi nel frattempo a Dessau e poi a Berlino.


Walter Gropius © Associated Press

Ora, nel novantesimo anniversario della fondazione il Museo Martin Gropius di Berlino apre la mostra “Modell Bauhaus” (Il modello Bauhaus), un’esposizione dedicata al movimento che pose le fondamenta sull’utopia e sull’estetica del funzionale. È la prima retrospettiva nata dalla collaborazione di tre enti che gestiscono l’eredità Bauhaus: le fondazioni di Weimar e Dessau e l’Archivio di Berlino. Gli oggetti in mostra sono un migliaio: progetti di edifici disegnati da Walter Gropius, i mobili di Marcel Breuer, i disegni di Mies van der Rohe. Ma non mancano le ramificazioni in altre correnti dell’epoca: il Futurismo, l’Espressionismo e il Dadaismo.

 
Heinrich S. Bormann: Kandem-Rohrtischleuchte Nr. 934

Curioso è l’edificio che ospita la mostra: il Museo Martin Gropius, intitolato a uno zio di Walter, è quanto di più distante dall’ideale del Bauhaus. Gropius lo salvò dalla demolizione nel 1946 dopo che era miracolosamente uscito dai bombardamenti.


MODELL BAUHAUS
Martin Gropius-Bau
Niederkirchnerstraße 7 | Ecke Stresemannstraße 110
BERLINO
Metropolitana: Linea 2, stazione Potsdamer Platz
dal 22 luglio al 4 ottobre 2009
Orario: 10-20 (martedì chiuso)
Ingresso: € 10 (ridotto € 8)

  Il Martin Gropius-Bau © Gisela Pape


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LA FRASE DEL GIORNO
Solo i grattacieli in costruzione mostrano ardite idee costruttive, e l'effetto di questi scheletri d'acciaio che si stagliano contro il cielo è sconvolgente.
LUDWIG MIES VAN DER ROHE

giovedì 23 luglio 2009

Quello spione di Hemingway

“Spies: The Rise and Fall of the KGB in America” è un libro edito dalla Università di Yale ed è opera di John Earl Haynes, Harvey Klehr e Alexander Vassiliev. Si tratta di un documento che intende fare luce sullo spionaggio sovietico negli Stati Uniti.

La nota più rilevante è nel nome di una delle spie: nientemeno che Ernest Hemingway. Sarebbe stato addirittura lo scrittore Premio Nobel a presentare domanda al KGB e a incontrare reclutatori sovietici all’Avana e a Londra. Hemingway sarebbe divenuto una spia al soldo dell’U.R.S.S. nel 1941 con il nome in codice “Argo”. Il suo primo incarico fu il viaggio in Cina al seguito della moglie Martha Gellhorn, giornalista di Collier’s: la coppia incontrò Chang Kai-shek e Chou En-lai. Ma lo scrittore americano non fornì niente di concreto sul piano politico e fu cancellato dall’elenco prima della fine degli Anni Quaranta.

Almeno questo è quello che sostiene uno degli autori del saggio, Alexander Vassiliev, ex agente del KGB, che ha potuto consultare per un brevissimo periodo gli archivi del famigerato servizio segreto ai tempi di Stalin. “Una spia dilettante” il commento. Hemingway un dilettante? Impossibile: “Papa” era un professionista in tutto quello che faceva, romanzi, corride, safari, battute di pesca, bevute, sesso. E poi, possibile che non abbia tratto  dall’esperienza neppure un misero racconto?


Hemingway nel 1939 (Pubblico dominio)

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LA FRASE DEL GIORNO
Ho una vita interessante, ma devo scrivere perché se non scrivo in una certa misura non posso godermi il resto della mia vita.
ERNEST HEMINGWAY, Verdi colline d’Africa

mercoledì 22 luglio 2009

Gli antichi e la fortuna

Per noi la Fortuna è cieca, lo era anche per i Latini: Cicerone scrisse nel “De amicitia” che “la fortuna non solo è lei stessa cieca, ma rende ciechi anche coloro che abbraccia”. I Greci analogamente sostenevano, come Menandro nel monostico 741 J, che “la fortuna è un essere cieco e disgraziato”, così come la ricchezza, che della fortuna è spesso sorella.

Ma nell’antica Roma si paragonava anche la fortuna a una ruota – analogia che oggi talvolta si sente usare per le vicende della vita. Albio Tibullo coglie questa volubilità in una delle sue elegie: “La fortuna si muove con il giro veloce di una ruota leggera”. Esempi simili si trovano in Cicerone, che parla di un “giro di danza” nell’orazione contro Pisone, e in vari passi di Ovidio: “con passi ambigui e volubili cammina la fortuna”. Il greco Menandro scrive di una fortuna che “volge tutto”.

“La ruota della fortuna”, oltre a essere un quiz molto longevo, è anche una locuzione medievale documentata nei Carmina Burana (“tu ruota volubile”) e in Bartolino da Padova, che esegue una crasi tra i due modi di dire: “Qual lege move la volubel rota, / Fortuna cieca?”. Dante nel XV canto dell’Inferno così si rivolge a Brunetto Latini: “Però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e il villan la sua mazza”.

Allora, pronti a tentare la fortuna con il Superenalotto? Se vincete, ricordatevi con Publilio Siro che “la fortuna è di vetro: proprio quando riluce si rompe”.


 Ruota della fortuna, antica incisione

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Quella che van chiamando col nome di Fortuna è una femmina ubriaca e volubile, e soprattutto cieca, per cui non vede quello che fa, e non sa chi è che abbatte e chi è che innalza.
MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte

martedì 21 luglio 2009

La notte della Luna

«Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!»



Erano le 22 e 17 del 20 luglio 1969 in Italia quando Tito Stagno, il giornalista che seguiva la diretta per la RAI, che allora era l’unica televisione nazionale, pronunciava con enfasi queste parole. Tutto il paese, tutto il mondo, era davanti ai teleschermi per assistere a quello storico momento. Il LEM, primo oggetto costruito dall'uomo, toccava il suolo lunare. Ma bisognò aspettare fino alle 4 e 56 del 21 luglio perché Neil Armstrong divenisse il primo uomo a posare il piede sulla superficie della Luna, precisamente nel Mare della Tranquillità, e a compiere, secondo le sue parole “un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”.


Il sogno che era stato di intere generazioni di uomini e donne diventava realtà in quella notte di luglio: quello che Jules Verne, Italo Calvino e Ludovico Ariosto avevano osato immaginare nella fantasia del romanzo e della poesia, era ora reso possibile dalla tecnologia. I tre astronauti, Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, a bordo dell’Apollo 11 portarono a termine una missione leggendaria che poneva fine a un decennio di lotte tra Unione Sovietica e Stati Uniti per l’esplorazione del satellite terrestre. Ma, idealmente, a compiere quel passo sulla Luna erano in tanti: la cagnetta Laika, Valentina Tereshkova, Yuri Gagarin, l’equipaggio dell’Apollo 1 distrutto durante le operazioni di lancio, tutti gli astronauti che la NASA aveva addestrato e usato per le missioni preparatorie.



Mentre Aldrin raccoglieva campioni di pietre lunari, circa venti chili, Armstrong piantò la bandiera a stelle e strisce sulla superficie rocciosa e senza vento del pianeta, scattò numerose fotografie e lasciò una targa con incise queste parole:

«Qui uomini dal pianeta Terra
fecero il primo passo sulla Luna
Luglio, 1969 d.C.
Siamo venuti in pace per tutta l'umanità».


Fotografie: © NASA 



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LA FRASE DEL GIORNO
Penso che andiamo sulla Luna perché è proprio della natura umana affrontare le sfide.
NEIL ARMSTRONG, Conferenza stampa della missione Apollo

lunedì 20 luglio 2009

Don Gnocchi ricordato da un amico



Il 25 ottobre prossimo a Milano don Carlo Gnocchi sarà proclamato beato. Sul portale della diocesi ambrosiana c’è una bella intervista a Don Giovanni Barbareschi, il giovane sacerdote conosciuto da don Gnocchi alla stazione di Udine nel 1943, al ritorno dalla Russia, e divenuto suo amico e confidente.

Don Barbareschi, medaglia d’argento della Guerra di Liberazione, rimase a fianco del “papà dei mutilatini” durante la fulminante malattia che lo colpì alla fine del 1955 e che lo portò alla morte nel febbraio del 1956. Convocato alla clinica Columbus, il giovane prete si sentì dire da don Gnocchi: «Voglio prepararmi a vivere la mia morte ri­cordando e rivivendo la mia vita». E obbedì, portandogli nastri di musica classica, libri di poesia e di teologia, da David Turoldo a Teilhard de Chardin, conversando con lui per ore, parlando di fede e ricordando figure amate, come la madre di don Gnocchi.

Così racconta Don Giovanni Barbareschi: Sono stato con don Carlo giorno e notte nel corso dell’ultimo mese, fino alla sua morte: per me è stata l’esperienza più forte e più significativa della mia umana vicenda. Quando la gravità del male fece capire che ormai i giorni erano pochi, don Carlo volle celebrare quella che sarebbe stata la sua ultima Messa. Lui a letto con addosso la vestaglia blu che metteva solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da campo, sul quale c’erano come calice la sua teca e una piccola reliquia di Santa Teresa del Bambino Gesù - oggetti a lui molto cari, perché li aveva sempre tenuti con sé quando era cappellano militare in Grecia e in Russia - e il crocefisso che la mamma gli aveva regalato per la sua prima Messa. «Adesso domandiamo perdono a Dio con le nostre parole», e ciascuno disse le sue parole. Iniziammo con la parola dell’uomo. Leggemmo un passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così: morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955. E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che ama». Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca». Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»). I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi - disse a me -, e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto, ricordava ciascuno. Terminata la consacrazione, volle che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.

LINK: L’INTERVISTA A DON GIOVANNI BARBARESCHI


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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni disordine morale è un atto di guerra. La vita invece deve rinascere e con essa la dolcezza dell’amicizia. In un mondo come il nostro, inaridito, agitato, maniaco, è necessario mettere olio d’amore sugli ingranaggi dei rapporti sociali e formare nuclei di pensiero e di resistenza morale, per non essere travolti
.
DON CARLO GNOCCHI, Restaurazione della persona umana

domenica 19 luglio 2009

Le “Note azzurre” di Dossi

Selva - di pensieri miei
e d'altrui
In seme
- in fiore
- in frutto
Lazzaretto dove il D. tiene in quarantena i propri e i pensieri altrui
Cervello di carta, aperto in sussidio
Dell'altro già zeppo
Granai di riserva per le probabili carestie.

Con queste parole che sembrano contenere in sé i germi del Futurismo lo scapigliato Carlo Dossi presenta le sue “Note azzurre”, cinquemila pensieri, aforismi e riflessioni che spaziano dall’etimologia alla vita di amici letterati, dalle letture dei classici latini e greci e dei poeti italiani alle facezie dei vetturini. Talora tagliente, talora banale, il Dossi, in queste “Note” uscite postume nel 1964, annota tutto quello che gli passa per la mente, componendo uno zibaldone dove diluisce i suoi capricci, le sue ossessioni, le bizzarrie, il gusto di dissacrare tanto caro alla sua poetica.


Da “Note azzurre”, Treves, 1912

17. O gente che scrivete per non esser capita, non sarebbe assai meglio taceste!

63. La terra produce i suoi frutti a date epoche, e così l'animo.

256. Si può scrivere usufruendo dell'ingegno altrui, non si può dell'altrui cuore.

474. Con l'amor non si scherza. Molti che cominciano fingendo amore, ci restano poi colti davvero.

934. L'umorista è l'avvocato delle cosidette cause perse, che egli riesce ancora, taluna volta, a salvare. L'umorista, in ogni fatto, cerca e trova il lato non conosciuto.

1315. Dicesi età dell'oro quella in cui oro non c'era.

1589. Il meditare da solo è onanismo - il pensare con altri (conversare) è coito.

1867. La mitologia è una filosofia a simboli, a pitture.

1873. Un libro indegno di essere letto una seconda volta è indegno pure di essere letto una prima.

2334. Io non scrivo mai il mio nome sui libri che compro se non dopo di averli letti, perché allora soltanto posso dirli miei.

2951. Fra molecola e molecola passa la distanza che passa fra stella e stella.

3148. Solo a cento leghe d'Italia, un italiano può simpatizzare con un altro italiano.

4971. I pazzi aprono le vie che poi percorrono i savi.








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LA FRASE DEL GIORNO
Una volta l'ingegno valeva qualchecosa di più che non ora. Una bell'ode ci dava un governo. Ma oggi, in cui tutto è irregimentato, protocollato, bollato, l'uomo d'ingegno e lo stolto si trovano a pari condizione. Ci è necessario far coda per procedere d'un passo. Se lo stolto innanzi non va, non sperar di avanzare, o tu, uomo d'ingegno.
CARLO DOSSI, Note azzurre, 3614




Alberto Carlo Felice Pisani Dossi (Zenevredo, 27 marzo 1849 – Cardina, 17 novembre 1910), scrittore, diplomatico e archeologo italiano. Tra i più importanti esponenti della scapigliatura milanese, apprezzato per il  linguaggio ricercato ma comprensibile a tutti, le sperimentazioni linguistiche dialettali milanesi e la spiccata ironia con la quale mosse critica al suo tempo e alla sua società, sia in ambito politico che sociale.


sabato 18 luglio 2009

Alte lagune che credemmo mari


JUAN RAMÓN JIMÉNEZ

PUERTO REAL

A Cadice, annottare scarlatto,
28 gennaio

Fa paura il ricordarsi
dei morti istanti
in cui fummo felici!
Reca
la memoria, con ciascuno di essi
- come in un vento grande
di aridità e rovina -,
la sua terra e il suo alone...
E son paludi secche, sali
rossi, alte lagune che credemmo mari!

(da Diario de un poeta reciencasado, 1916)


Sono illusioni ormai le nostre memorie. Almeno così in un rosso tramonto invernale giudica Juan Ramon Jiménez, in attesa di imbarcarsi per l’America nel 1916. Lui, il “poeta dell’istante”, rimane sgomento davanti a questa constatazione, alla consapevolezza che i ricordi restano confinati nel passato, e se erano lande verdeggianti ora non possono essere altro che aridi deserti…

Questa poesia mi rammenta un breve racconto di Dino Buzzati, da “Le notti difficili”: un uomo vede un corriere caricare sul camion un grosso pacco uscito dalla sua casa; lo insegue con l’auto e finalmente lo raggiunge in una discarica dove il trasportatore getta il pacco su una catasta di altri, tutti uguali. Sono i giorni perduti, tutti i giorni vissuti, uno sull’altro: l’uomo ne apre qualcuno e si intenerisce per quello che avrebbe dovuto fare e non ha fatto, come accudire il fratello malato in ospedale, dire una parola alla fidanzata che invece se ne è andata, passare del tempo con il vecchio cane fedele che ha trascurato. Chiede se è possibile avere almeno quei tre, ma il corriere fa un gesto vago a dire che non è possibile e svanisce, insieme con i pacchi.

Insomma, non c’è nulla da fare: i ricordi sono la nostra vita, non possiamo abbandonarli. Come scrisse Hermann Hesse in “Pellegrinaggio d’autunno”, «Credo anch'io che la nostra vita e le nostre percezioni si sviluppino a partire da un groviglio di ricordi sommersi. Forse quello che chiamiamo anima non è se non l'insieme di questi oscuri detriti di ricordi».

 

Corinne Orazietti, “Tidal pools”

 

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LA FRASE DEL GIORNO
I ricordi ci uccidono. Senza memoria, saremmo immortali.
GESUALDO BUFALINO, Il malpensante




JimenezJuan Ramón Jiménez (Palos de Moguer, 24 dicembre 1881 - San Juan, Portorico, 29 maggio 1958), poeta spagnolo premiato con il Nobel nel 1956, fu uno dei principali esponenti della Generazione del ’14 e del Modernismo. La sua ricerca poetica lo portò a privilegiare la poesia nuda ed essenziale, fatta solo di immagine e di parola al di là della musicalità esteriore.


venerdì 17 luglio 2009

Alfonso Gatto

Nasceva a  Salerno da famiglia calabrese esattamente cento anni fa, il 17 luglio del 1909, uno dei poeti più significativi del '900 italiano: Alfonso Gatto. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, morì in un incidente automobilistico ad Orbetello nel 1976.
Fu lui stesso a definirsi, in un articolo sul "Politecnico" di Vittorini nel 1947: “Se voi mi domandate perché un poeta scrive, in che modo si è deciso a scrivere, se voi ricordate quel ragazzo seduto nella sua stanza diroccata, comprenderete perché la poesia appartenga agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, lungo tutta la vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza nemmeno mai riuscire a destarla”.
Ermetico di confine, si diceva sopra: perché Gatto ricavò dall’Ermetismo il gusto dell'analogia e la ricerca continua di quel sentimento sofferto, ma lo rielaborò in un ordine che ermetico non è, la prosodia metrica, l'endecasillabo, la strofa, la rima. La poesia di Gatto è colorata, spesso gioiosa, anche se pervasa da un senso della morte che si intreccia al vivere: l'infanzia e la sua innocenza vi spiccano come un lontano paradiso mitologizzato, l'arte vi divampa a colori diventando spesso una trasposizione visiva di tipo impressionista.







da "POESIE", 1941

POESIA

In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo.
Circolo chiuso ad ogni essere è l'amore che lo regge.
Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui
cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento.
Universo che mi spazia e m'isola, poesia.




PRIM'ALBA

Prim'alba odora vuota.
Il silenzio dell'aria
s'imperla gelido.

E in ogni foglia tace
l'ulivo, la tristezza.

Ora la notte sbianca.



CANTO ALLE RONDINI 

Questa verde serata ancora nuova
e la luna che sfiora calma il giorno
oltre la luce aperto con le rondini
daranno pace e fiume alla campagna
ed agli esuli morti un altro amore;
ci rimpiange monotono quel grido
brullo che spinge già l' inverno, è solo
l' uomo che porta la città lontano.
e nei treni che spuntano, e nell' ora
fonda che annotta, sperano le donne
ai freddi affissi d' un teatro, cuore
logoro nome che patimmo un giorno.




PAROLE

«Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: - io lo dicevo all'ombra
ch'eri nel vano della stanza - attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi di un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo.»
    Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna.



da "POESIE D'AMORE", 1949

IL 4 È ROSSO

Dentro la bocca ha tutte le vocali
il bambino che canta. La sua gioia
come la giacca azzurra, come i pali
netti del cielo, s'apre all'aria, è il fresco
della faccia che porta. Il 4 è rosso
come i numeri grandi delle navi.



da "LA FORZA DEGLI OCCHI", 1953

QUASI UN RICORDO

Incontrarci per caso ci parve
nell'ora dimenticata.
Fu la stazione gialla nel verde.
Un ciclista perduta la via
beveva ricordi in fondo agli occhi.
Ma tutto è eterno per chi passa,
anche il nome udito una volta.



da "DESINENZE", 1976

UN FIORE PER KAVAFIS

Un uomo come lui che gli somigli,
stanco e voglioso d'essere più solo
di quel che fu con i pensieri suoi,
con le sue mani attente a trovar posto
alla tazza al bicchiere al quadernetto
di versi, luccicante per gli occhiali
l'intensa tenerezza di cui visse:
questo, nel freddo dell'ottobre schivo,
il fiore che ti porto.
È nell'emporio dolce della noia
il confetto pensoso che rimugini
con l'amara lentezza dello sguardo,
il notare il notare e mai concludere,
come dicevi,
e la saggezza pigra dell'amore.





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LA FRASE DEL GIORNO
La rima corrisponde all'antico richiamo che le parole hanno tra loro come due occhi che sono necessari allo stesso sguardo.
ALFONSO GATTO, su "La Fiera letteraria" del 25 dicembre 1955




Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.


giovedì 16 luglio 2009

Primo Levi poeta

Primo Levi, lo scrittore torinese universalmente noto per “Se questo è un uomo”, “La tregua”, “I sommersi e i salvati” e i racconti di “La chiave a stella” era anche un poeta – una sola raccolta, “Ad ora incerta”, edita nel 1984 con testi che vanno dal primissimo dopoguerra agli Anni ‘80. Nel suo dire calmo e discorsivo va a cogliere il cuore dell’emozione, come appare da questi versi che ho scelto come esempio del suo lato lirico. L’esperienza atroce del lager resta comunque sullo sfondo, un tatuaggio sull’anima, anche nelle poesie più distanti nel tempo da quell’evento.





CUORE DI LEGNO

Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di corso Re Umberto.
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie,
fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Del sottosuolo saturo di metano;
è abbeverato d’orina di cani,
le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali;
sotto la scorza pendono crisalidi
morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.


10 maggio 1980



12 LUGLIO 1980


Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
Per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
sono il mio modo ispido per dirti cara,
e che non starei al mondo senza di te.





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LA FRASE DEL GIORNO
In questa nostra epoca fragorosa e cartacea, piena di propaganda aperta e di suggestioni occulte, di retorica macchinale, di compromessi, di scandali e di stanchezza, la voce della verità, anziché perdersi, acquista un timbro nuovo, un risalto più nitido..
PRIMO LEVI, Il giornale dei genitori, n. 15, gennaio 1960




Primo Michele Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987), scrittore, partigiano e chimico italiano, autore di racconti, memorie, poesie e romanzi. Arrestato dalla milizia fascista il 13 dicembre 1943, fu rinchiuso nel campo di Fossoli e poi ad Auschwitz. Raccontò la terribile esperienza in Se questo è un uomoLa tregua e I sommersi e i salvati.


mercoledì 15 luglio 2009

Nella gabbia dei ricordi


La locandina della memoria offre spettacoli ibridi; una festa, oggi; domani, una sinistra avventura.

C’è chi beve per dimenticare: lui beve per ricordare.

Pericoloso entrare senza frustino nella gabbia dei ricordi. Mordono.

Quando non è una lanterna magica, la memoria è un film dell’orrore.

Il solito dubbio: se ricordare o dimenticare, rompere i ponti col passato o scaldarselo in cuore come una serpe.

Questi aforismi dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, tratti da Il malpensante, illustrano il fascino doloroso della memoria: ci spalanca un mondo magico, popolato di visi amici, ci fa rivivere situazioni, come se spalancasse davanti agli occhi della nostra mente una seconda vita, cancellando i limiti del tempo. Un territorio affascinante certamente, contiguo alle lande del sogno: ma irrimediabilmente confinato in un già accaduto, e qui sta il dolore, nell’impossibilità fisica di vivere in esso – una volta tornati al presente la magia svanisce come una bolla di sapone e ci resta solo l’amaro…

 

Frederick Leighton, “Ricordi”

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Il passato è la mia patria.
GESUALDO BUFALINO, Il malpensante




Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 – Vittoria, 14 giugno 1996), scrittore, poeta e aforista italiano. Insegnante, si rivelò tardi alla letteratura pubblicando nel 1981 Diceria dell'untore, con cui vinse il Premio Campiello. Con il romanzo Le menzogne della notte vinse nel 1988 il Premio Strega. Il suo stile ricercato, ricco e  "anticheggiante" gli deriva dall’abilità linguistica e da una vasta cultura.


martedì 14 luglio 2009

Salinas tra realtà e illusione


PEDRO SALINAS

V. È STATO, ACCADDE, È VERO

È stato, accadde, è vero.
Fu in un giorno, fu una data
che segna il tempo al tempo.
Fu in luogo che io vedo.
I suoi piedi toccavano il suolo
questo stesso che noi tocchiamo.
Il suo vestito
era simile ad altri
che indossavano altre donne.
Il suo orologio
sfogliava calendari,
senza scordare l'ora :
come contano gli altri.
E quello che lei mi disse
fu in idioma del mondo,
con grammatica e storia.
Così vero
che sembrava menzogna.

No.
Devo viverlo dentro,
me lo devo sognare.
Togliere il colore, il numero,
il respiro tutto fuoco,
con cui mi bruciò nel dirmelo.
Mutare tutto in forse,
in mero caso, sognandolo.
Così, quando vorrà smentire
ciò che mi disse allora,
non mi morderà il dolore
d'una felicità perduta
che io tenni tra le braccia,
come si tiene un corpo.
Crederò di aver sognato.
Che tutte quelle cose, così vere,
non ebbero corpo, né nome.
Che perdo
un'ombra, un sogno ancora.

(da La voce a te dovuta, 1933)

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Questa poesia di Pedro Salinas fa parte di La voce a te dovuta, un poema in settanta componimenti del 1933 che racconta una storia d’amore con i suoi sentimenti, i suoi dolori, i suoi silenzi: monologhi e dialoghi che si intersecano nella memoria. E, come capita nella memoria, non c’è tempo: il loro ordine non è quello cronologico, ma quello imposto dal ricordo.

In questo caso Salinas si bilancia tra realtà e illusione: nella prima parte àncora l’amata e gli oggetti nel reale, cerca di assumere la consapevolezza che quanto accade a ognuno accade anche ad altri, che innumerevoli volte è accaduto e accadrà nella storia del mondo. La data, il luogo, il suolo, il vestito, il tempo, il linguaggio: tutto è condivisibile. Persino quelle parole dette mille volte in mille posti diversi a mille persone differenti: sono talmente vere, talmente reali da divenire il loro opposto, la menzogna.

Dimenticare che è stato, scivolare nell’illusione è la soluzione, abbandonarsi ai se, alle ipotesi, mettere in dubbio ciò che è stato, che dolorosamente è stato, negare la sofferenza, convincersi di aver sognato, di non avere avuto la propria felicità esanime tra le braccia, persuadersi che se si perde qualcosa è solo un’ombra, un’altra illusione che svanisce come la luce di un tramonto.


   Manuel Castro, “The farewell”


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LA FRASE DEL GIORNO
Ti basta un’illusione / per farti coraggio.
GIUSEPPE UNGARETTI, L’Allegria




Pedro Salinas y Serrano (Madrid, 27 novembre 1891 – Boston, 4 dicembre 1951), poeta spagnolo appartenente alla generazione del 1927. La voce a te dovutaRagione d’amore e Lungo lamento formano una trilogia poetica sull’amore per Katherine Prue Reading, docente americana, interrotto dopo il tentato suicidio della moglie Margarita.